Alessandro Vespignani è uno dei consulenti selezionati a cui si rivolge la Casa Bianca quando si tratta di valutare il rischio di una malattia infettiva. Dal suo laboratorio informatico all’università Northeastern di Boston (Usa) scruta l’orizzonte per rilevare le minacce in arrivo prima che sia troppo tardi, elaborando i dati che da tutto il mondo segnalano focolai sospetti e casi sporadici in esseri umani e altre bestie.

Adesso sotto la lente c’è l’influenza aviaria H5N1, un virus classificato tra quelli «ad alta patogenicità». Da anni circola tra gli uccelli selvatici e di allevamento e raramente un umano è stato contagiato dai volatili: solo 889 i casi in vent’anni, di cui 463 mortali (il 52%). Quasi un terzo si è verificato tra il 2005 e il 2007, con 79 vittime nel solo 2006. Anche allora si temette che una pandemia umana fosse imminente ma poi il virus non fece il salto di specie.

Dopo un periodo di relativa bonaccia, Vespignani e colleghi oggi sono di nuovo preoccupati perché si moltiplicano i casi di influenza H5N1 tra i mammiferi. Il virus è mutato e dal 2020 a oggi l’influenza colpisce anche cani, felini, roditori, foche e cetacei, organismi assai più simili a noi di un’anatra.

La redazione consiglia:
Rischio pandemico, l’Italia è in ritardo come nel 2020

L’ultimo spillover riguarda le mucche da latte degli Usa. I primi test positivi sugli animali risalgono a marzo. «Però le analisi genetiche indicano che il focolaio probabilmente è iniziato a dicembre 2023» spiega Vespignani. «Come spesso avviene, la circolazione virale è rimasta sottotraccia per un certo periodo e ora si è diffusa in molti Stati. Sicuramente l’entità del focolaio è più grande di quella che riusciamo a rilevare, perché i controlli riguardano i trasferimenti di bestiame da uno stato all’altro. Ma all’interno di ciascuno stato è difficile vigilare, nonostante i numerosi controlli sulla catena di produzione latto-casearia».

Vengono monitorate da vicino le acque reflue: in uno studio diffuso due giorni fa i ricercatori dell’università di Houston (Texas) hanno trovato il virus in 19 siti monitorati su 23. «L’analisi del ceppo genetico fa pensare che sia di origine aviaria o bovina – hanno spiegato gli autori dello studio – ma una potenziale origine umana non può essere esclusa».

Finora però solo una persona ha contratto l’influenza dalle mucche, con sintomi passegeri simili a quelli di una congiuntivite. «Oltre al caso accertato ne potrebbero essere sfuggiti altri» nota Vespignani. «Al momento però non ci sono evidenze di trasmissione umana, nonostante i molti contatti monitorati. Certo è che il contagio in una specie con cui siamo così frequentemente a contatto aumenta i rischi e fa alza il livello di allerta. La guardia va tenuta alta perché nella popolazione non c’è un’immunità pregressa a un virus influenzale come H5N1. Tuttavia è una situazione diversa rispetto a un patogeno sconosciuto com’era il Sars-Cov-2 nel 2020».

Il virus dell’influenza A – di cui H5N1 è un sottotipo – è molto più studiato di quanto fosse il coronavirus. «Ci sono vaccini già pronti, sappiamo come adattarli contro altri ceppi e i farmaci antivirali al momento sembrano efficaci. Non saremmo dunque sguarniti». Difficile però frenare sul nascere un’epidemia influenzale perché i sintomi delle malattie respiratorie, come l’influenza, si assomigliano tutti.

I malati non gravi potrebbero non prendere particolari precauzioni e ci accorgeremmo del focolaio solo quando si è già esteso. «Sarebbe arduo – spiega Vespignani – scoprire le prime catene di trasmissione in contesti poco monitorati: oggi abbiamo tutti gli occhi puntati sulle fattorie ma se ci fosse uno spillover in una popolazione diversa sarebbe difficile individuarlo subito. Per fortuna l’analisi delle acque reflue permette di rilevare rapidamente aumenti improvvisi della circolazione virale e di stabilire di quale sottotipo si tratta».