Sanità, il coniglio nel cappello del Veneto
Riforme L’Italia invecchia rapidamente, lo certifica l’Istat. Nel giro del prossimo decennio per ogni giovane con meno di 14 anni ci saranno ben tre anziani ultra65enni. La distribuzione per età della […]
Riforme L’Italia invecchia rapidamente, lo certifica l’Istat. Nel giro del prossimo decennio per ogni giovane con meno di 14 anni ci saranno ben tre anziani ultra65enni. La distribuzione per età della […]
L’Italia invecchia rapidamente, lo certifica l’Istat. Nel giro del prossimo decennio per ogni giovane con meno di 14 anni ci saranno ben tre anziani ultra65enni. La distribuzione per età della popolazione italiana ha la forma di un imbuto, più che quella tipica di una piramide, con effetti devastanti sulla sostenibilità del sistema sanitario.
Una popolazione più anziana infatti, da un lato, esprime una maggiore domanda di salute e, dall’altro, è esposta a un calo consistente del personale sanitario attivo (entro il 2035 andrà in pensione quasi un terzo dei medici). Di fronte a questo scenario allarmante la politica nazionale arranca.
La legge di bilancio mette sul piatto risorse che, nella migliore delle ipotesi, manterranno il rapporto fra spesa sanitaria e Pil su valori pre-pandemici: ossia i livelli più bassi degli ultimi venti anni e di molto inferiori a quelli di Francia e Germania. Ecco allora che l’autonomia si presenta come il coniglio nel cilindro che può salvare il sistema sanitario di alcuni, a scapito degli altri.
Le funzioni richieste dalle regioni che aspirano all’autonomia differenziata sono avvolte dal mistero. Il manifesto ha potuto intercettare quelle del Veneto, che sono state già analizzate limitatamente alle materie non Lep (fra cui la protezione civile, oggetto di una recente riunione al ministero degli Affari regionali; Autonomia le pretese di Fontana e Zaia).
Ci focalizziamo ora su uno dei bocconi più ghiotti dell’autonomia differenziata, la sanità. Il Comitato Cassese ha decretato l’equivalenza fra Livelli essenziali di assistenza e Lep: questo significa che non occorrere attendere la determinazione di questi ultimi (sulla procedura a tal fine indicata nella legge Calderoli la Corte Costituzionale ha formulato ieri dei rilievi).
La regione Veneto chiede in primo luogo di acquisire pieni poteri sulla gestione del personale. Diverrebbe competenza esclusiva di Zaia disciplinare le assunzioni, gli incarichi, l’attività libero-professionale dei medici e soprattutto le retribuzioni, che potrebbero essere incrementate – in deroga ai tetti di spesa nazionali – per «valorizzare le professionalità» o incentivare la presa di servizio nelle sedi disagiate.
Nell’isola felice della sanità veneta la regione deciderebbe in piena autonomia anche gli accessi ai corsi per infermieri e alle scuole di specializzazione, con la possibilità di attivare percorsi di formazione-lavoro dopo la laurea. Potrebbe anche stipulare convenzioni per il riconoscimento dei titoli conseguiti all’estero e accorciare la durata del corso per medici di base.
Scomparirebbero così, con un colpo di bacchetta magica, tutti i problemi legati alla scarsa attrattività delle professioni sanitarie, al collo di bottiglia nella formazione post-universitaria e al turnover del personale.
Zaia pretende di avere mani libere anche sull’organizzazione dell’assistenza primaria e della medicina territoriale.
La regione Veneto deciderebbe autonomamente la dimensione della rete ospedaliera, l’articolazione per specialità, la capillarità dei servizi di emergenza, le modalità di erogazione della medicina di base, di quella preventiva e della specialistica ambulatoriale. Nel resto del Paese continuerebbero invece a valere i limiti posti dai decreti 70/2015 e 77/2022 per tenere sotto controllo la finanza pubblica.
La richiesta di pieni poteri riguarda anche i rapporti con il privato, ossia la libertà di stabilire i requisiti per l’esercizio delle attività sanitarie, il volume delle prestazioni somministrate attraverso i soggetti accreditati, le regole per il ripiano della spesa da parte delle aziende farmaceutiche e soprattutto l’istituzione di fondi sanitari integrativi con tanto di incentivi fiscali. Cade il velo sul volto autentico dell’autonomia differenziata: un progetto per travasare l’erogazione dei servizi essenziali dalla sfera pubblica a quella privata, con il governatore regionale unico dominus dell’intero processo.
Infine, Zaia rivendica piena autonomia nella programmazione degli investimenti infrastrutturali e l’assegnazione di risorse statali annue «certe e adeguate». Per l’edilizia sanitaria il Veneto chiede quindi di accedere a una corsia preferenziale, mentre le altre regioni resterebbero al palo delle procedure previste da una legge nazionale oramai obsoleta (la 67/1988). Una richiesta finale prospetta addirittura il conferimento alla regione di poteri sostitutivi in tutti i casi di inerzia dello Stato nell’adottare provvedimenti in ambito sanitario. Sotto il profilo delle risorse la sanità differenziata potrà contare sul gettito delle compartecipazioni ai tributi erariali e su criteri generosi di riconoscimento dei fabbisogni finanziari, grazie agli artifici escogitati da figure compiacenti che siedono negli organismi «tecnici».
Alla crisi di sostenibilità del sistema sanitario l’autonomia differenziata offre una soluzione miope e competitiva. Una corsa all’accaparramento di risorse finanziarie e umane, in cui ai flussi di pazienti in mobilità da Sud a Nord si aggiungerebbero quelli di laureati e giovani medici attratti da prospettive di lavoro più remunerative. Ma la domanda, alla quale gli italiani attendono ancora risposta, investe le motivazioni che dovrebbero legittimare il trasferimento della sanità nella competenza esclusiva di Zaia: ci sono forse peculiarità locali che rendono un malato veneto più meritevole di cure di un malato calabrese?
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