Nuove difese antimissile Patriot, nuovi carrarmati Leopard, nuovi pezzi di artiglieria 155mm, fino a sguarnire gli arsenali. Così la Germania, ma anche gli altri alleati, cercano di ammansire la leadership ucraina, furiosa per aver mancato, sul traguardo del summit di Vilnius, la data della propria adesione alla Nato.

La leader estone, Kaja Kallas, ha chiarito la direzione degli eventi: i Paesi europei membri dell’Alleanza hanno speso per la difesa troppo poco, se confrontati con gli Stati Uniti, Russia e Cina. E dunque, tutti d’accordo per nuove commesse, con la produzione di armi a pieno regime: che nessuno in Europa contesti il boom delle spese militari o ponga domande sulle conseguenze sociali, le dinamiche economiche e le tendenze politiche ormai piuttosto evidenti.

Facendo leva sulla pressione pubblica, Zelensky è arrivato a Vilnius abbracciando una folla di sostenitori entusiasti, dopo aver definito assurda l’assenza dell’indicazione di una data per l’adesione ucraina all’Alleanza Atlantica. Al tempo stesso, il presidente ucraino ha precisato che il primo obiettivo era ottenere più armi, nonché garanzie di sicurezza nel futuro immediato.

Nella delusione espressa dal presidente polacco Duda rispetto alla dichiarazione finale del Summit c’è la riproposizione della tensione fra la Nato della nuova Europa (per tornare a come i neocon americani nel 2003 chiamavano i paesi dell’Europa orientale, i più solerti nell’invasione dell’Iraq) e, per opposto, gli alleati continentali della vecchia Europa, Germania e Francia in primis. Con la grande differenza che questa volta, diversamente dal 2003, gli Stati Uniti paiono ben allineati alla Germania nella decisione di rimandare a dopo la fine della guerra ogni decisione circa adesione di Kyiv all’alleanza. La scelta non prendere la decisione più eminentemente politica, ovvero la certezza di tempi e modi per l’Ucraina atlantica, può essere letta su tre piani analiticamente distinti.

Primo, la Nato è un’organizzazione, non semplicemente un’alleanza: nella dialettica fra alleati, si è ribadita l’importanza, per l’organizzazione, della ricerca del consenso rispetto alle fughe in avanti dettate dall’opportunità strategica, ribilanciando in tal modo il peso acquisito in questi 500 giorni di guerra dal fronte dei ‘falchi’ – quest’ultimo rinvigorito dall’endorsement che la Turchia di Erdogan ha dato all’Ucraina nella Nato proprio alla vigilia del summit. Si tratta, a ben vedere, di un arco di paesi spesso guidati dalla destra nazionalista-sovranista, per i quali la scelta dell’Occidente risponde molto più a una logica di collocazione geopolitica che non di abbraccio della democrazia liberale.

Secondo, c’è il piano domestico: il tema della condizionalità politica. Pur fra molte contraddizioni, la Nato è un’organizzazione politico-militare, non solo militare. Per quanto l’integrazione militare di Kyiv sul piano dell’interoperabilità sia sempre più evidente, sussistono criteri di minima coerenza ereditati proprio dalla storia dell’espansione della Nato a est. Tale allargamento ha infatti sempre seguito il criterio di assenza di (rinuncia a) controversie di confine, nonché di conflitti che riguardano minoranze etno-nazionali, almeno a partire da due «esperienzee», una diretta la guerra per il Kosovo del 1999, l’altra indiretta lacrisi georgiana del 2008..

Così, sia pure in modo non lineare, questa condizione ha contribuito, nel recente passato, a mettere in sordina alcune controversie, in vista dell’accesso alla Nato: è successo per i paesi baltici, nei Balcani e nella regione del Danubio. Rovesciare, aderendo alla fotografia dell’oggi, questa impostazione firmando un assegno in bianco alla leadership ucraina avrebbe un impatto che potrebbe essere dirompente domani.

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Nessuno sa come l’Ucraina, che vive in condizioni di emergenza bellica nelle quali è stato congelato il sistema politico, uscirà dalla guerra, come verranno definiti gli assetti istituzionali, quale ruolo giocheranno le economie criminali o le milizie paramilitari. Il richiamo, della dichiarazione che chiude il Summit, al tema della governance democratica e della corruzione è quantomai eloquente: ci dice che il blocco occidentale, dopo aver contribuito alla difesa dall’aggressione, non ha intenzione di abdicare ad un ruolo nella transizione ucraina.

Per quanto la propaganda operi le sue semplificazioni (fra i paesi amici della Nato si contano autocrazie e dittature) non si può pensare che alle democrazie occidentali, sfidate in casa da forze populiste e nazionaliste che traggono linfa nel quadro politico, economico e sociale determinato dalla guerra, risulti indifferente la collocazione democratica dell’Ucraina, ovvero se si candida ad essere un paese-guida del fronte sovranista.

Infine, terzo, c’è il piano dell’uscita dalla guerra con la Russia combattuta dagli ucraini. Nessuno sa esattamente, oggi, con quale equilibrio fra vicende militari ed equilibri politici ne usciremo. Mosca non è in grado di vincere militarmente, Kyiv è più che mai ancorata al campo atlantico, ma persistono numerose altre incognite – escalation nucleare inclusa – rispetto alle quali i tempi e modi di adesione ucraina alla Nato non sono la premessa ma piuttosto parte del processo, contribuendo al complesso calcolo di costi ed incentivi. In altre parole, le incognite a cui esporrebbe oggi la certezza di un’adesione meccanica, immediata e senza precedenti, superano i benefici che si possono razionalmente attendere posticipando la decisione.

L’‘operazione speciale’ ordita da Putin per dissolvere l’indipendenza ucraina ha rafforzato l’Alleanza Atlantica proprio quando era definita esanime: dopo l’ingresso di Finlandia e Svezia, da San Pietroburgo non si vedono che sponde nemiche. Su queste sponde, il summit di Vilnius fotografa un’organizzazione che prova a tenere allineate tensioni che presumibilmente riaffioreranno dopo le elezioni europee del prossimo anno, se assisteremo ad una vittoria delle destre sovraniste.

In questo quadro, che ha implicazioni anche per il Mediterraneo e l’Africa, la destra italiana di governo si distingue al solito per ambiguità: ricondizionata da un recente passato putiniano, in sintonia politica con i sovranisti dell’Europa orientale, abbraccia senza riserve l’egemone statunitense nella ricerca delle garanzie per la propria riproduzione al potere.