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«Libertà per le donne afghane». Il passo falso della squalifica

«Libertà per le donne afghane». Il passo falso della squalificaLa breaker afghana Manizha Talash – foto Ap

Fine dei giochi Bgirl Talash, rifugiata da Kabul, fuori dalle finali di breaking per la scritta sul mantello

Pubblicato 3 mesi faEdizione del 11 agosto 2024

Afgana di Kabul e cultrice di breackdance – la disciplina che solo da questa edizione 2024 è stata ammessa alle Olimpiadi – la ventunenne Manizha Talash è stata squalificata per aver mostrato durante le batterie della specialità una sorta di mantello con la scritta Free Afghan women: liberate le donne afgane. Un gesto innocuo e largamente condivisibile in una riunione sportiva all’insegna del politicamente corretto dove – giustamente – si esclude la Russia che invade l’Ucraina ma si ammette Israele che ha il «diritto di difendersi» o il Myanmar dove una giunta golpista uccide i cittadini bombardando indiscriminatamente come si fa a Gaza ogni giorno. Anche i campi sportivi.

L’atleta è stata squalificata per aver mostrato un messaggio politico sui suoi vestiti in violazione della regola 50 della Carta Olimpica Federazione danza sport

«Bgirl Talash è stata squalificata per aver mostrato un messaggio politico sui suoi vestiti in violazione della regola 50 della Carta Olimpica», fa sapere la Federazione internazionale di danza sportiva. Una regola che vieta agli atleti di esprimere le proprie opinioni politiche durante i Giochi. Anche se, come nel caso di Manizha, si fa parte di una squadra molto speciale e senza insegne nazionali, ossia il team dei Rifugiati che per la prima volta (ed è una scelta politica condivisibile) gareggia accanto agli atleti con le maglie dove campeggia invece la bandierina del Paese di appartenenza.

Non ho lasciato l’Afghanistan perché ho paura dei Talebani o perché non posso vivere lì. Sono partita per fare quello che posso per le ragazze afghane Manizha Talash

Manizha un Paese non ce l’ha, o meglio ha chiesto asilo in Spagna ed è destinata a diventare forse spagnola. Un motivo in più per lasciar da parte rigidità obsolete che la storia delle Olimpiadi ha già visto violare più di una volta: una per tutte – la più famosa – quei pugni chiusi alzati dai neri Tommie Smith (The Jet) e John Carlos sul podio che li premiava nel 1968 alle Olimpiadi di Città del Messico. Oro e bronzo per i 200 metri piani. Chi, secondo, aveva vinto l’argento – il “bianco” Peter Normann – non fu da meno: indossava la coccarda dell’Olympic project for human rights. Non molto dissimile dalla “bandiera” di Manizha.

MA AL PODIO Manizha non c’è arrivata. Nella prima sfida di ieri ha affrontato l’olandese India Sardjoe (che l’ha battuta) subito dopo che aveva mostrato il mantello celeste con quel messaggio largamente condiviso. Così condiviso che, si poteva leggere ieri «…il Comitato Olimpico Internazionale l’ha invitata a partecipare dopo aver appreso dei suoi sforzi per contrastare il regime dei Talebani e del suo impegno a favore dei diritti delle donne». Davvero bizzarro, se è così, che la sua partecipazione sia stata «politicamente» caldeggiata e poi la sua frase sia stata censurata costandole la squalifica. I Talebani avranno festeggiato. Gente che Manizha non teme. «Non ho lasciato l’Afghanistan perché ho paura dei Talebani o perché non posso vivere lì. Sono partita per fare quello che posso per le ragazze dell’Afghanistan, per la mia vita e il mio futuro», ha detto prima della competizione.

A KABUL aveva cominciato presto e non senza difficoltà anche ai tempi della Repubblica «protetta» dai fucili dei nostri soldati: unica donna di un team di 56 membri della Superiors Crew, la piccola comunità di breaking della capitale. Ma la donna danzante, in un Paese dove anche prima dei Talebani il ballo era solo maschile, non andava giù prima di tutto ai suoi genitori. Né a quell’estesa fetta di tradizionalisti cui le donne piacciono solo dietro le mura di casa. Poi ci si son messi gli islamisti di cui i Talebani sono solo una fazione: il team ha iniziato a ricevere minacce di morte ed è entrato nel mirino di un attentato fortunatamente sventato. Tanto è bastato a farlo chiudere. Poi l’arrivo dei Talebani e la guerra dell’estate 2021 che si conclude a metà agosto con la presa di Kabul. Anche Manizha riesce ad andarsene e arriva in Spagna come rifugiata dove riprende la sua passione. Prima delle Olimpiadi ha detto che non vedeva l’ora di partecipare ai Giochi Olimpici di Parigi 2024 con la Squadra dei Rifugiati.

La squadra ufficiale afgana ha sei atleti di cui tre, Yulduz Hashimi, Fariba Hashimi e Kimia Yousufi, sono donne. L’ammissione dell’Afghanistan ai Giochi non è stata una passeggiata e la squadra è composta da atleti che vivono fuori dal Paese, fatta eccezione per il judoka Mohammad Samim Faizad che abita e si allena in Afghanistan. Il Comitato Olimpico Internazionale ha creato la squadra d’accordo con il Comitato Olimpico Nazionale afgano (Noc) in esilio e con le federazioni degli sport individuali. I Talebani sono stati esclusi dalle consultazioni perché il Cio riconosce solo il Noc e del resto l’Emirato non è praticamente riconosciuto da nessun Paese. In giugno, l’Afghanistan – o meglio il suo Comitato olimpico in esilio – ha annunciato squadra e specialità: Atletica, Ciclismo, Judo e Nuoto. Cinque atleti di origine afgana hanno gareggiato invece nella squadra olimpica dei rifugiati in Breaking, Ciclismo, Judo e Taekwondo. Partecipazione macchiata ora da un brutto episodio che arricchisce la galleria di chi ama l’agonismo ma anche i diritti.

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