«La Polonia è un posto sicuro, la Polonia è libertà», canta un giovane iracheno con la testa tra le sbarre del muro di confine voluto dalla destra polacca per tenerlo fuori. Accanto a lui una bambina di sei anni che volendo tra le sbarre passerebbe. A pochi metri le guardie di frontiera polacche a volto coperto sorvegliano che la decina di attivisti presenti non superino i quindici metri di sicurezza e che, soprattutto, non diano nulla a chi è dall’altra parte del «muro».

MENTRE QUEST’ARTICOLO va in stampa ci sono 24 persone accampate da quattro giorni all’addiaccio nella foresta di Bielowieska: tentano di ottenere asilo in Polonia. Da più di un anno non capitava che qualcuno si accampasse di fronte a uno dei cancelli del muro, in genere chi prova a passare lo fa di nascosto. Tra loro un bambino di un anno e mezzo, altri tre bambini piccoli, qualche adolescente e diverse donne, una delle quali incinta al quinto mese. Un ragazzo ha una ferita abbastanza grave provocata da un morso dei cani delle guardie di frontiera bielorusse.

Queste informazioni le sappiamo grazie a Maria, un’attivista che conosce l’arabo e che fa da interprete a tutti gli altri che si danno il cambio sotto gli alberi della «foresta più antica d’Europa». Il muro, finito di costruire a luglio 2022, sorge in territorio polacco, il confine di stato con la Bielorussia si trova a pochi metri.

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«LA COSA ASSURDA è che quelle persone sono già in territorio polacco, secondo le leggi internazionali e anche secondo la legislazione polacca dovrebbero poter richiedere asilo – spiega una ragazza – e l’hanno anche fatto, li abbiamo registrati». Ma a voce? «La legge polacca dice che, purché sia dimostrabile, la richiesta vale anche se fatta verbalmente e le guardie sarebbero obbligate a trascriverla». Ma ovviamente non lo fanno.

Non c’è da stupirsi, le storie dei migranti fatti passare dalle varie polizie d’Europa, compresa quella italiana, per richiedere asilo in un altro Paese si sprecano. Secondo gli accordi di Dublino il primo stato dell’Unione nel quale il richiedente asilo entra è obbligato a registrare la richiesta.

 

E quindi, niente verbale, niente richiesta di asilo. Gli attivisti, o meglio le attiviste, quasi tutte donne di varie età, sono qui da oltre 40 ore e ogni tanto si danno il cambio. Dormono qui, «prometto che non me ne andrò finché non si trova una soluzione», dice Maria, che tra tutte è forse la più indispensabile al momento. Ogni tanto qualcuno urla con le mani appoggiate alla ringhiera «Mariaaaa» e lei dopo un po’ finisce per dire sempre le stesse frasi, condite da diversi «habibi», «sorry» e «inshallah».

Quando ci faranno entrare? Habibi non lo so se vi faranno entrare, sorry, ma noi restiamo qui con voi. Potete darci del cibo? Habibi non possiamo, sorry, dobbiamo aspettare che le guardie ci diano l’autorizzazione. E le guardie non la danno, sono dall’altra parte dello stradone, appoggiati al grosso pick-up verde e osservano.

OGNI TANTO PASSA un grande camion militare con otto ruote e due rimorchi. «È il camion che usano per i respingimenti, quando trovano qualcuno lo caricano lì e lo portano fuori dal muro, lo minacciano e gli dicono di non tornare», spiega una ragazza. «Lo scorso Natale nelle scuole dell’infanzia ai bambini hanno chiesto di fare un lavoretto per i “nostri eroi che proteggono la patria” – racconta una donna – Disegni, letterine, che poi le maestre dovevano mandare a questi qui, la cosa tremenda è che poi andavano nelle scuole con quei grossi mezzi militari e ci facevano salire i bambini sopra; sullo stesso mezzo che usano per ricacciare indietro questa gente, capisci? Le strade intanto sono piene di manifesti che ringraziano “gli eroi che stanno difendendo la patria”. Ma non è follia questa? Non è fascismo? Guardali, ti sembrano pericolosi?».

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Quando il grosso camion passa rumorosamente le attiviste iniziano a cantare per distrarre i bambini, cantano canzoncine, motivi tradizionali polacchi, anche qualcosa che assomiglia al «Ballo del qua qua» con tanto di mimi. I bambini ridono e poi applaudono. Per ricambiare, un ragazzo intona strofe in arabo. «Sono un cantante famoso – dice alla fine – In Iraq tutti mi conoscono». Maria gli dice che quando passerà faranno un duetto. «Ma è famoso davvero?», sento chiedere, «sì, ci ha dato il suo profilo Instagram, ha un sacco di follower». A ogni modo canta benissimo.

Si avvicina un gruppo di signore anziane, sono turiste polacche come tante venute qui per ammirare le bellezze della foresta. Chiedono che succede, poi alcune di loro si uniscono ai canti, tra cui una donna con i capelli tinti di rosso acceso. Un’amica la chiama mentre si avvia, annoiata. L’altra, l’anziana con i capelli rossi, risponde «vai tu» e per una mezz’ora intrattiene i bambini con canti e balletti.

Anche le attiviste sono galvanizzate da quel siparietto, ma le guardie non gradiscono, salgono sulla jeep e iniziano a passare ripetutamente sullo stradone che separa il muro dalla boscaglia. Ogni volta che arrivano tra le attiviste e le teste tra le sbarre sgommano, alzando un polverone. Dopo poco arrivano anche degli uomini, forse i mariti delle signore anziane. La maggior parte guarda da lontano, non fa domande e se ne va.

UNA DELLE ATTIVISTE racconta che a volte si vedono uomini loschi poco dietro i richiedenti asilo. «Hanno il volto coperto, sono vestiti di nero… secondo noi sono guardie bielorusse che vanno lì a fare pressione, ricordano a quelle persone cosa li aspetta se tornano indietro». I militari polacchi osservano impassibili e non agiscono.

L’avvocato che si sta occupando del caso ha presentato una domanda alla Corte europea per i diritti dell’uomo (Cedu) con procedura urgente per obbligare il governo polacco a lasciarli entrare e chiedere asilo. L’ultima volta la Cedu obbligò Varsavia soltanto a prestare soccorso, fuori dal muro.

Per questo l’avvocato ora ha chiesto che si obblighi il governo a lasciarli entrare e a ospitarli mentre chiedono asilo. Sarebbe la prima volta in assoluto, un precedente per tutti i confini con muri. In genere la Cedu risponde in giornata, stavolta stanno prendendo tempo, sono più di 24 ore che si attende una risposta. «È sicuramente per questioni politiche», dicono le attiviste.

Si fa sera, inizia a far freddo, ieri la temperatura è scesa fino a zero gradi. Nel frattempo le guardie di frontiera hanno distribuito delle bottiglie d’acqua, dei vasetti (forse yogurt) e qualche kiwi, inshallah. Ma li danno solo alle donne e ai bambini. Ai maschi dall’adolescenza in su non vogliono dare nulla. Qualcuno insiste e alla fine ottiene un kiwi, ma sono pochi. I bambini iniziano a piangere e i genitori aprono i sacchi a pelo per la notte.

«IERI HANNO provato ad accendere un fuoco ma non ci sono riusciti», raccontano. Anche le attiviste iniziano a prepararsi, le magliette sono state coperte da pile e giacche, c’è chi indossa il cappuccio di lana. Dall’altra parte hanno sempre gli stessi vestiti.

Arriva un gruppo di ragazzi, turisti polacchi, in bici. Si fermano perplessi di fronte al cartello «Zona militare, limite invalicabile». Mentre passiamo per andare via li guardiamo osservare quelle persone oltre le sbarre. Sembra che siano allo zoo, guardano con la stessa indifferenza con cui guarderebbero un animale. Uno dice una cosa che suona come una battuta, qualcun altro ridacchia, tutti girano le biciclette e ripartono scampanellando.