«L’estrattivismo è una lente sul mondo intero»
Visioni

«L’estrattivismo è una lente sul mondo intero»

Silke Huysmans e Hannes Dereere in «Pleasant Island»

Intervista Il duo performativo belga composto da Silke Huysmans e Hannes Dereere racconta la sua poetica ecologista

Pubblicato più di un anno faEdizione del 8 marzo 2023

Due giorni fa il «Look down collective» ha organizzato un raduno davanti al Parlamento europeo a Bruxelles contro l’estrazione mineraria in alto mare, una nuova tecnologia che si vorrebbe la «grande soluzione» alla crisi climatica: i robots si approvvigionano «facilmente» di nickel, rame e cobalto. Produrre batterie da questi tre metalli aiuterebbe la transizione all’economia verde, secondo le compagnie dedite all’estrattivismo. Ma gli scienziati non sono per nulla certi dell’impatto ambientale di questo tipo di estrazione, considerate le scarse conoscenze della vita marina a tali profondità.

Il duo belga di giovani performer Silke Huysmans e Hannes Dereere esplorano questa tematica nello spettacolo Out of the Blue, visto lo scorso febbraio a Zona K di Milano, tornerà in Italia nei festival estivi.

Come vi siete interessati al disastro ecologico e al teatro ambientalista?

Nel 2015 il disastro della diga Mariana è avvenuto molto vicino a dove Silke è cresciuta, a Bento Rodrigues nel sud del Brasile. La compagnia estrattiva Samarco fu ritenuta responsabile dell’allagamento di diversi villaggi con rifiuti tossici. La società ha diffuso una campagna pubblicitaria con lo slogan «È sempre bello guardare la storia da una prospettiva diversa», ancora prima di iniziare a pagare e ripulire quanto avevano causato. Quello è stato il momento in cui Silke e io abbiamo deciso di fare uno spettacolo sull’argomento e di mettere in pratica esattamente ciò che loro proponevano. Siamo volati fino al suo paese natio e abbiamo parlato con persone legate al disastro, non solo vittime, ma anche chi lavora per le compagnie minerarie per avere un reddito, col sindaco del paese impegnato politicamente, con i sacerdoti, i pescatori che non potevano più pescare perché il fiume era inquinato.

Il vostro secondo lavoro «Pleasant Island» parlava di come l’avidità e l’estrazione di fosfato hanno distrutto l’isola di Nauru.

Dopo il primo spettacolo abbiamo sentito che il tema dell’estrazione mineraria era così grande che dovevamo continuare la ricerca. È diventato come una lente attraverso la quale abbiamo osservato il mondo intero con le sue relazioni sociali, ecologiche ed economiche.

Perché avete scelto di raccontare il disastro della diga senza immagini?

Le immagini sono cariche di emozioni, soprattutto i primi piani dei volti. Il nostro materiale era composto principalmente da interviste, allora abbiamo pensato di aprire una riflessione su quanto veniva detto, concentrandoci sul contenuto. Un altro problema con la spettacolarità è che se non si è direttamente coinvolti nel disastro diventa una delle tante immagini che si vedono al telegiornale. Se non trovi una connessione, dopo 10 secondi passi a qualcos’altro.

Le voci che avete registrato parlano in tutte le lingue possibili, rivelano complesse relazioni politiche in diverse parti del mondo. Inoltre viaggiate molto sia per le produzioni che per i tour. Quanto vi sentite globalizzati come artisti?

Oh, è complicato. È vero che la nostra arte è possibile solo in un mondo globalizzato. Facciamo molto affidamento su internet per parlare con le persone. Nel nostro ultimo lavoro Out of the Blue rimaniamo nel nostro appartamento a Bruxelles seguendo tre navi nella zona di Clarion Clippertone nell’Oceano Pacifico – quella della compagnia mineraria, quella con gli scienziati e quella con i manifestanti di Greenpeace – e siamo in contatto con loro tramite satellite. Prima di questa trilogia di lavori io e Silke non eravamo dei grandi viaggiatori. Infatti quando siamo andati in Brasile, era la prima volta che lasciavo l’Europa. Cerco di evitare di viaggiare per motivi ecologici. Ma poi se realizzi una performance vuoi condividerla. È un grande dono poter portare storie dal Brasile in Europa, ma allo stesso tempo i minerali che vengono estratti lì sono destinati al consumo nel vecchio continente. Gli investitori delle attività di Samarco in Sud America sono le maggiori banche tedesche e olandesi. La nostra impronta ecologica è grande, tutto è interconnesso.

Avete detto che il titolo «Out of the Blue» non si riferisce solo alle profondità marine, ma anche a certe sensazioni di tristezza e malinconia. Si tratta più di rimpiangere il passato o temere il futuro?

In Pleasant Island c’è la malinconia di quello che un tempo era il paradiso degli abitanti. In questa pace c’è sempre uno sguardo all’indietro, come se potessimo ripristinarla in futuro. Ma in Out of the Blue c’è una strana specie di malinconia per qualcosa che non è ancora successo. L’estrazione mineraria in acque profonde non è ancora una realtà, ma lo spettacolo esamina le possibili conseguenze.

È facile relazionarsi con i vostri racconti di paesaggi desolati con tutte le catastrofi ambientali che accadono, da quello di Aberfan in Galles alla disperazione delle popolazioni indigene australiane. Come scegliete le vostre storie?

Quello che stiamo facendo è universale in un certo senso. Il lavoro sul disastro minerario in Brasile riguarda anche la comunità e come affrontare qualcosa di così grande. Gli avvenimenti dell’isola di Nauru sono legati alla storia europea: la colonizzazione porta al degrado ecologico, che porta al declino sociale, che porta alla crisi migratoria, quindi alcune persone ne traggono vantaggio, che in un certo senso porta a fantasie tecnocratiche come l’estrazione mineraria in acque profonde. Ogni nuovo spettacolo della trilogia inizia dove era finito il precedente, quindi in un certo senso è un’unica storia. Il terzo riguarda il futuro, e parte dal Belgio dove viviamo e lavoriamo.

In Italia c’è questa lunga epopea del Mose per salvare Venezia. Perché le persone credono ancora nelle costose soluzioni tecnologiche?

Questo è esattamente ciò di cui si occupa Out of the Blue, l’idea confortante che forse c’è una soluzione tecnica, in modo da non dover cambiare il nostro modo di produrre. Ma queste tecnologie richiedono risorse che devono essere prelevate altrove. Più soldi e più estrazioni. Forse dovremmo – intendo i paesi più ricchi – cambiare il modo in cui guardiamo al nostro sistema economico, al modo in cui consumiamo, in cui mangiamo e utilizziamo le risorse.

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