Le ragioni di una scelta illogica
L'Iran funesta Donald Trump ha decimato via via, nel corso della sua presidenza, i capi al top del Pentagono, dell’intelligence, della sicurezza nazionale, lasciando posti chiave a lungo vuoti o operando sostituzioni opinabili. Il risultato delle purghe? Espulse le voci moderate o almeno competenti nella cerchia ristretta del presidente
L'Iran funesta Donald Trump ha decimato via via, nel corso della sua presidenza, i capi al top del Pentagono, dell’intelligence, della sicurezza nazionale, lasciando posti chiave a lungo vuoti o operando sostituzioni opinabili. Il risultato delle purghe? Espulse le voci moderate o almeno competenti nella cerchia ristretta del presidente
Trump stesso aveva sempre scartato l’idea di assassinare Soleimani. Come i suoi due predecessori. Sia il repubblicano George W. Bush sia il democratico Barack Obama avevano respinto i consigli di chi spingeva per l’eliminazione mirata dell’uomo forte di Teheran, sostenendo che era un’ottima idea per infliggere un colpo duro alla leadership iraniana e metterla in soggezione.
Non l’avevano fatto, perché semplicemente era una pessima idea: «Non valeva la pena di una probabile ritorsione, di un potenziale risucchio in un conflitto prolungato», spiega Elissa Slotkin, esperta di milizie sciite irachene sostenute da Teheran, analista della Cia e del Pentagono al servizio delle due ultime amministrazioni prima di quella attuale.
Slotkin non ha dubbi sulla saggezza di non avventurarsi in provocazioni frontali nei confronti dell’Iran: «I fini ultimi non giustificano i mezzi», dice, interrogandosi se quest’amministrazione «abbia soppesato le mosse e le contromosse che l’attacco contro Soleimani metterà in atto».
Già, con chi sta valutando, Trump, le conseguenze della sua decisione, essa stessa, peraltro, apparentemente indecifrabile alla luce dei suoi ripetuti, starnazzati proclami contro le guerre dei suoi predecessori?
Donald Trump ha decimato via via, nel corso della sua presidenza, i capi al top del Pentagono, dell’intelligence, della sicurezza nazionale, lasciando posti chiave a lungo vuoti o operando sostituzioni opinabili. Il risultato delle purghe? Espulse le voci moderate o almeno competenti nella cerchia ristretta del presidente. Non c’è una squadra che produca una dottrina, ma neppure una qualche idea minimamente prospettica che spieghi le ragioni di una determinata mossa e le sue conseguenze entro un percorso di medio termine.
Insomma, l’eliminazione del capo dei guardiani della Rivoluzione non risponde a una «logica», ed è per questo particolarmente efferata, irresponsabile e carica di conseguenze imprevedibili e prevedibilmente molto serie.
Con l’assassinio di Soleimani, si rompe quello che era comunque un equilibrio di reciproca deterrenza, tra Washington e Teheran, una rottura a cui sembra assai difficile possa seguire un lavoro di ripristino di quell’equilibrio per quanto precario.
I due missili lanciati ieri contro obiettivi americani a Baghdad suonano conferma di una situazione senza controllo.
Come spesso accade in Medio Oriente, scrive Thomas Friedman, «l’opposto di cattivo non è buono. L’opposto di cattivo spesso si traduce in disordine. Non è perché fai fuori un pessimo attore come Soleimani significa che al posto suo arriva un buon attore, o una buona politica. Soleimani è parte di un sistema chiamato rivoluzione islamica in Iran».
Che Trump ignori l’abc stesso delle dinamiche mediorientali, ci sta, è l’ennesima prova della sua indole rozza e capricciosa.
Di certo rafforza l’impressione che la sua decisione sia stata dettata solo da calcoli elettorali e di politica interna, in particolare dal timore di finire logorato nel percorso di impeachment proprio per mano di quei senatori repubblicani legati al vecchio establishment bushista che lo detestano, soprattutto perché gli rimproverano le scelte di politica isolazionista fin qui seguite.
L’impresa di Baghdad dovrebbe fare di Trump il presidente che piace ai falchi. Intanto, però, l’effetto – rispetto al Congresso – è quello di irritare senatori e deputati, non solo democratici.
La cosiddetta «Gang of Eight», gli otto leader di commissioni parlamentari competenti per le questioni di politica estera e di sicurezza, ha reso noto il disappunto per la mancata consultazione.
Qualunque sia il calcolo che abbia spinto Trump a compiere una svolta radicale nella sua proclamata intenzione di chiudere le guerre dei suoi predecessori e di riportare a casa tutti «i nostri ragazzi», suscita un effetto ovviamente opposto.
Una nuova guerra mediorientale, con la prospettiva di morti americani e di militari caduti, con il rischio di ficcarsi in una strada senza uscita, balza ora al centro dello scontro elettorale.
Anche per i democratici diventa il tema centrale, non solo nei confronti di Trump, ma anche nella loro competizione interna, a neppure un mese dall’inizio delle primarie in Iowa.
Bernie Sanders è molto netto nel condannare l’operazione, definendola un «assassinio», e va a toccare il tasto giusto per mettere in difficoltà Trump.
Il presidente, dice il senatore del Vermont, ha dato ascolto a «estremisti di destra, alcuni dei quali erano esattamente gli stessi che ci portarono in guerra» nel 2002.
Le azioni di Trump causano «una pericolosa escalation che ci porta vicini a un’altra disastrosa guerra in Medio Oriente».
La nettezza di Bernie pone il Partito democratico su una linea d’intransigenza che costringe gli altri candidati alla nomination a non deflettere, compreso Joe Biden che nel 2002 votò a favore dell’intervento in Iraq, un voto che gli avversari gli ricordano e gli rimproverano, nel momento in cui lo spettro di un’altra guerra mediorientale s’aggira a Washington.
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