Visioni

«Le fardeau», il coraggio di superare lo stigma

«Le fardeau», il coraggio di superare lo stigmaUna scena da «Le Fardeau»

Cinema Il secondo film di Elvis Sabin Ngaïbino, una coppia alla prova della malattia socialmente demonizzata. Presentato a Filmmaker Festival, adotta un’orizzontalità dello sguardo. La «nuova onda» dei registi nella Repubblica Centrafricana, l’ambivalenza del rapporto con la religione

Pubblicato 11 mesi faEdizione del 21 novembre 2023

Che nella Repubblica Centrafricana – Paese in profondo stato di conflitto sociale, politico, economico, militare, tra i più esposti alle diseguaglianze nell’immensa area subsahariana sconvolta da enormi tensioni geopolitiche – qualcosa a livello cinematografico si stia muovendo è un dato oggettivo. Un Paese praticamente vergine nella storia del cinema delle Afriche si sta ponendo all’attenzione per la presenza di un gruppo di cineasti che stanno scrivendo in questi anni pagine imprescindibili per la «nascita» di una nuova cinematografia. C’è sempre, da qualche parte in Africa, qualcosa che si muove, che porta allo sviluppo di nuove strategie produttive e filmiche, che fa sorgere in luoghi finora ai margini delle nuove consapevolezze all’interno delle immagini in movimento. Pionieri odierni indicano possibili strade sulle quali incamminarsi per fare emergere, dal di dentro, traiettorie moderne per sguardo e narrazione al fine di raccontare storie proprie, che li riguardano e che riescono a uscire dai confini per far conoscere al mondo realtà osservate con una pluralità di punti di vista.

Dentro questo percorso, che non è azzardato definire come una potenziale «nouvelle vague» africana in grado di espandersi, si inserisce – in qualità di regista, direttore della fotografia, sceneggiatore, produttore (di Nous, étudiants! con cui Rafiki Fariala ritrae con vibrante complicità le giornate di studenti dell’università di Bangui) – Elvis Sabin Ngaïbino il cui lavoro più recente, Le fardeau, è stato presentato ieri nel concorso internazionale di Filmmaker in corso di svolgimento a Milano (in prima italiana dopo avere esordito pochi giorni fa a Idfa Film Festival di Amsterdam). Nato a Begoua, nella Repubblica Centrafricana, nel 1985, il cineasta – laurea in biologia, fondatore nel 2012 con un gruppo di amici dell’Académie du Cinéma Centrafricain, e poi partecipante ai laboratori degli Ateliers Varan – è noto ai frequentatori del festival milanese avendo mostrato nel 2020 il suo primo lungometraggio Makongo, descrizione di una comunità in lotta contro ogni aspettativa di educazione realizzata con flagrante e nitido approccio formale.

UN CINEMA del reale senza sovrastrutture, quello di Sabin Ngaïbino, che va dritto alla sostanza degli argomenti trattati e delle persone incontrate. Le fardeau ne è la conferma e, come si scopre alla fine del film, in una didascalia, il protagonista Rodrigue Rangba è il cugino del regista. Ma Le fardeau non è un «film di famiglia», è un testo che – attraverso la storia di Rodrigue e della moglie Reine Ouango, che vivono con i tre figli nella capitale Bangui – si fa, come in Makongo, «indagine» su una comunità, molto religiosa, e su una quotidianità che vive di contrasti, quello tra scienza e rituali tradizionali in nome di una religione guaritrice dalla presenza del Diavolo fonte di ogni disagio, malattie comprese, Aids compreso.

La coppia si trova a vivere questa ambivalenza: crede in Dio, è praticante, Rodrigue vorrebbe diventare pastore per assicurare anche alla famiglia una vita economica migliore, ma, come la moglie, è sieropositivo – ed è un fatto da tenere nascosto o, al massimo, parlarne con altre persone nella stessa condizione, non certo con il pastore della chiesa evangelica che nomina l’Aids come una punizione divina. Rodrigue si discosta da quella visione bigotta, si sente anche in colpa, ma reagisce proprio mentre l’assenza di cure adeguate (non potendo permettersi farmaci consigliati dai medici e ricovero in ospedale per mancanza di denaro) lo rende più debole e costretto su una sedia a rotelle per via dei gonfiori alle gambe e ai piedi.
Sabin Ngaïbino filma con orizzontalità di sguardo – come nel miglior cinema delle Afriche, passato e presente – tanto le persone quanto i luoghi che frequentano (la casa della coppia, la chiesa, il mercato, le strade), pone la macchina da presa in mezzo a loro, non ostacola i loro movimenti, assume una sana classicità.

FINO A CONSEGNARCI un epilogo di forte valenza politica nel momento in cui Rodrigue, tornato a frequentare la chiesa, fa un discorso coraggioso rivelando a tutti di avere l’Aids per liberarsi dal fardello che opprimeva lui e la moglie, che gli è accanto, e dalle credenze fasulle, e quindi uscire, predicare senza pre-giudizi, affermare che «se qualcuno ti stigmatizza, lascialo fare».
Sostenuto dalla moglie che lo accompagna spingendo la sedia a rotelle. Di profilo e di spalle, nella bellissima inquadratura finale, i due si allontanano lungo una strada. Non c’è musica, solo i rumori del posto. E, lontano da «punizioni divine» e dalla vergogna di doversi nascondere, possono avanzare, fragili e determinati. «Ora possiamo andare dappertutto e condividere la parola di Dio. Nulla ci può fermare», aveva appena detto Reine.

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