Quarantadue anni non sono pochi. Dedicati, con dedizione e professionalità, a promuovere il cinema africano, ovvero i tanti cinema di un continente plurale nelle sue stratificazioni, complessità, differenze, attraverso lunghi e cortometraggi, opere di finzione e documentarie, film realizzati in Maghreb, Mashreq, Africa subsahariana, ma anche nei Paesi europei da autori e autrici afro-discendenti.

QUESTA è stata ed è la «missione» del Festival del cinema africano di Verona che in questi giorni si ripresenta a pubblico e addetti ai lavori in una nuova veste pur mantenendo intatte le linee guida che l’hanno portato a diventare un punto di riferimento per scoperta e valorizzazione, e anche riscoperta e rivalorizzazione, di quanto sta accadendo ed è accaduto nella produzione filmica delle Afriche.
Nuova veste perché da questa edizione il festival (diretto da Giusy Buemi e Stefano Gaiga) si concentra sui cortometraggi e cambia nome diventando Cinelà – Festival di cinema africano e oltre. In giuria l’autrice, regista e attrice algerino-francese Nadja Harek, il critico cinematografico marocchino Habib Nasry e il camerunese Jean-Marie Teno, vale a dire uno dei cineasti che, negli anni Ottanta e Novanta, ha contribuito alla formazione di un nuovo cinema africano con sguardo moderno e popolare, si pensi a titoli come De Ouaga à Douala en passant par Paris, Afrique, je te plumerai, Clando. Venti titoli in concorso, firmati sia da registi affermati sia da nomi di quella che potrebbe diventare una nuova generazione di cineasti. Senza dimenticare di omaggiare uno dei pionieri del cinema delle Afriche, il senegalese Ousmane Sembène, di cui ricorre il centenario della nascita, con la proiezione (questa sera nell’arena del cinema Santa Teresa, sede di tutte le proiezioni e degli incontri e ben frequentata da un pubblico curioso e partecipe) del suo primo lungometraggio La noire de… del 1966 nella copia restaurata dalla Cineteca di Bologna.

ECCO QUINDI, spulciando tra i cortometraggi – volutamente molto diversi tra loro per forma e argomenti, proprio per offrire una vasta panoramica dei tanti modi con i quali si possono raccontare storie che affrontano questioni sociali, politiche, storiche, d’attualità – che emergono opere di notevole potenza e gesto militante. Angle mort del tunisino Lotfi Achour (che sta per tornare al lungometraggio), regista di cinema e teatro tra la Tunisia e la Francia, è un magnifico film ibrido (immagini dal vero, animazione, finzione, documentario), avvolto in un grigio dominante che, attraverso la voce narrante di un morto, il protagonista, descrive la repressione politica e militare al tempo di Ben Ali (ma oggi le cose stanno nuovamente sprofondando) partendo dal caso specifico di un uomo rapito, torturato e ucciso nel 1991. Bergie di Dian Weys e The Town di Lindine Makgalemele sono due suggestivi testi sudafricani. Nel primo, il regista porta in primo piano il dramma dei senzatetto («bergie» è la parola in afrikaans che li definisce) usando un unico piano sequenza e il formato 4:3 per rendere, rifuggendo narcisismi estetici, lo stato di tensione e confusione che si crea lungo un marciapiede. Nel secondo, la cineasta sudafricana nata in Botswana costruisce un piccolo mondo ai bordi di una strada in mezzo al nulla, protagonista una bambina e la sua immaginazione, un tempo che il torpore dato dal caldo espande ancora di più, un ambiente tutto al femminile che può anche fare venire in mente le visionarie esplorazioni compiute da Jane Campion nei suoi primi lavori.