Quando nel 1946 Jean-Paul Sartre pubblicò il suo celebre L’antisemitismo. Riflessioni sulla questione ebraica non aveva probabilmente in mente solo la tragedia della Shoah di cui il mondo era venuto a conoscenza di recente. Dopo che la prima metà del Novecento, anche grazie ad ogni sorta di tecnologia della distruzione, aveva rivelato tutta la barbarie della quale l’uomo poteva essere capace, si trattava di definire attraverso l’antisemitismo una sorta di paradigma di ogni forma di nazionalismo che, individuando un capro espiatorio cui dare la caccia, spiegasse la crisi e l’insicurezza generali per il tramite di un pericolo immaginario. «Se l’ebreo non esistesse – spiegava infatti Sartre – l’antisemita lo inventerebbe». Quell’odio era stato del resto un combustibile decisivo per tentare l’assalto al cuore della società democratica prima e alle trincee nemiche poi.

Indigna, ma forse non dovrebbe stupire perciò più di tanto, il fatto che nel lungo monologo senza alcun contraddittorio, mal celato sotto l’etichetta di «intervista», che è stato concesso domenica da Rete4 al ministro degli Esteri della Federazione russa Sergej Lavrov, siano riecheggiate espressioni che evocano la più sinistra retorica antisemita. Fedele alla narrazione che fin dal 24 febbraio cerca di giustificare l’invasione e la guerra di annientamento condotta dai russi in Ucraina con l’idea che il Paese vada «denazificato», Lavrov ha, tra deliri e minacce anche di altra natura, spiegato che il fatto che il presidente ucraino Volodymyr Zelensky sia ebreo non ha alcuna importanza, visto che «anche Hitler aveva origini ebree» e, del resto, «il saggio popolo ebraico dice che gli antisemiti più ardenti sono di solito ebrei».

Espressioni inqualificabili che hanno ovviamente suscitato moltissime reazioni, a cominciare da quelle di coloro che l’antisemitismo e le sue tragiche conseguenze sono abituati a indagarle e insegnarle alle nuove generazioni, come i responsabili dello Yad Vashem di Gerusalemme. E alle quali hanno risposto le prese di posizione di storici e ricercatori, come Amedeo Osti Guerrazzi, autore, tra le altre sue opere, del recente documentario Storie della Shoah in Italia. I complici che ha sottolineato come si tratti di «esternazioni che si nutrono di leggende metropolitane e di complottismi nati in ambienti neonazisti e negazionisti tesi a dimostrare che, ammesso che ci sia stato un Olocausto, la colpa è da ricondurre agli ebrei, trasformandoli quindi da vittime in carnefici».

Ciò che sembra emergere è infatti solo l’ombra dell’humus culturale che si è andato sedimentando nell’ultimo ventennio al Cremlino. Vale a dire una costruzione ideologica magmatica, non priva di contraddizioni, ma dagli sbocchi evidenti: per legittimare l’assenza di democrazia, e di diritti sociali e politici all’interno, e una nuova vocazione aggressiva e guerrafondaia all’estero – vent’anni e più separano la prima guerra di Cecenia dall’invasione dell’Ucraina in un continuum quasi ininterrotto di conflitti -, fenomeni per altro strettamente interconnessi, si è puntato tutto sull’idea che «poteri stranieri», potentati internazionali o l’Occidente stesso, coacervo di decadenza morale e identità culturali scarsamente definite (cosmopolite? curioso per un Paese dai mille volti) stessero negando alla Russia e al suo popolo la propria innata grandezza.

Un sistema cleptocratico che non ha utilizzato le risorse provenienti da gas e petrolio per migliorare le condizioni di vita della popolazione, ma solo di un’élite metropolitana sufficientemente larga da garantirgli forme di consenso da esibire alla bisogna, ha raccontato ai propri concittadini dell’esistenza di un vasto e ramificato complotto anti-russo tale da giustificare le loro difficili condizioni di vita: sono le famiglie dei soldati che in Ucraina hanno fatto razzia di utensili domestici da spedire a casa. Non c’è forse bisogno di citare l’antisemitismo di Dugin, il fascismo di Il’in, i deliri complottistici della Nuova cronologia, l’evocazione di Stalin o dell’ultimo Zar, l’alleanza con la Chiesa ortodossa, tutti elementi riscontrabili pubblicamente nelle retoriche del Cremlino, per comprendere che le parole di Lavrov non rappresentano una bizzarra eccezione, ma piuttosto il suo contrario.

Intervenendo recentemente sul Guardian, lo storico del fascismo Jason Stanley ha proposto di leggere in questa luce anche l’appello alla «denazificazione»: «I cristiani russi sono bersaglio della cospirazione di un’élite globale, che, usando il vocabolario della democrazia liberale e dei diritti umani, attacca la fede cristiana e la nazione russa». Da quale parte si situi l’antisemitismo è facile intuirlo.