«In Occidente fino ad oggi si pensa che la libertà e l’uguaglianza siano ideali indiscutibili, che la democrazia sia un assioma per ogni persona “perbene”, che l’elezione sia sempre più alta e più utile della nomina, che la monarchia è sempre peggiore della repubblica (…)». Ma, «davanti a noi non c’è un “ideale”, non un “sogno” e non una “dottrina”, ma il compito fondamentale di ricreare la Russia. E dobbiamo concepire la Russia come uno stato vivente, organico-storico, unico, russo-ereditario, con la sua fede speciale, con tradizioni e bisogni speciali». Al di là di qualche espressione e riferimento più databili nel passato, ad una prima lettura si potrebbe essere forse portati a credere che queste frasi siano tratte da uno dei molti interventi pronunciati da Vladimir Putin nel corso degli ultimi vent’anni, e ancor di più da quando lo scorso 24 febbraio le forze armate russe hanno invaso l’Ucraina. Si tratta invece di una citazione tratta da Nashi Zadachi (I nostri compiti), una raccolta di scritti politici pubblicati tra il 1948 e il 1954, anno della sua morte, dal filosofo Ivan Aleksandrovic Il’in, il più significativo tra i pensatori fascisti russi. E una delle figure più citate da Putin.

È, TRA GLI ALTRI, allo storico statunitense Timothy Snyder, docente a Yale e membro del comitato scientifico del Museo dell’Olocausto di Washington, che si deve l’analisi del ruolo assunto dalle tesi di Il’in nel nuovo pantheon ideologico del Cremlino. Specialista dell’Est europeo e della Shoah, autore di testi come Terre di sangue. L’Europa nella morsa di Hitler e Stalin e Terra nera. L’Olocausto fra storia e presente (entrambi per Rizzoli), divenuti rapidamente dei «classici», Snyder ha progressivamente spostato il proprio sguardo sul presente, cercando di scorgere le radici di alcuni dei fenomeni che minacciano oggi la democrazia; dal nazional-populismo in Occidente, a partire dal fenomeno Trump, fino allo sviluppo del regime putiniano in Russia.

A questo riguardo, già in La paura e la ragione (Rizzoli, 2018), lo storico sottolineava come, in particolare dopo la crisi economica globale del 2008, all’assenza di una volontà riformatrice sul piano sociale e democratico, abbia corrisposto da parte del regime di Mosca il ricorso alla «politica dell’eternità». Con questa formula Snyder identifica il tentativo di costruire costantemente ad arte un clima di emergenza e di manipolare le emozioni dei cittadini per distrarli dai problemi reali del Paese. Invece che cercare di migliorare le condizioni di vita all’interno della società, sforzo che metterebbe probabilmente in discussione la tenuta e la legittimità stesse del proprio potere, la leadership si spende senza sosta per «metterla in guardia dalle minacce».

IN QUESTO SENSO, il riferimento all’«eternità» colloca una nazione «al centro di un racconto ciclico di vittimizzazione. Il tempo non è più una linea verso il futuro, bensì un ciclo che riproduce senza fine le minacce del passato». Inoltre, se l’origine di questo «pericolo» viene identificata come esterna al Paese, risulta implicito l’invito a serrare le fila e a seguire di buon grado le indicazioni di chi guida il potere.

Se sostituire gli oligarchi dell’era Eltsin con persone di fiducia per lo più provenienti dalle fila dell’ex Kgb, è stato all’inizio del nuovo millennio l’obiettivo concreto e immediato di Putin, accanto al controllo repressivo dello Stato e all’utilizzo sistematico a fini propagandistici dei media, anche la costruzione ideologica del nuovo potere è diventata rapidamente una priorità. È in questo contesto che intrecciato al pensiero geopolitico di Aleksandr Dugin, l’opzione eurasiatica della ricostruzione di un vasto impero continentale, e all’abbraccio sempre più stretto con il conservatorismo omofobo del Patriarcato di Mosca, sono andati emergendo in modo sempre più evidente i riferimenti alla figura e al pensiero di Il’in che già oltre settant’anni fa aveva presentato «l’assenza dello Stato di diritto alla stregua di una virtù russa» e riletto l’intera vicenda nazionale «non come storia, ma come un mito ciclico della virtù nativa difesa dalla penetrazione esterna». In sostanza, in oltre mille anni di storia, il Paese era stato soggetto a tali minacce che l’intero suo agire era giustificabile nei termini di una estenuante «autodifesa».

NATO A MOSCA NEL 1883, di famiglia nobile legata ai Romanov, Il’in si era laureato con una tesi che leggeva da destra le tesi di Hegel, auspicando una redenzione del mondo che muovesse da una nazione «innocente» come la Russia, superando in senso regressivo la dialettica tra il volere di Dio e la libertà dell’individuo.

Esiliato dal Paese dopo la nascita dell’Urss nel 1922, visse prima in Germania e quindi in Svizzera divenendo una delle voci più note della comunità dei «russi bianchi». Ammiratore di Mussolini e di Hitler, aveva visitato l’Italia e scritto articoli pieni di ammirazione sul Duce e la Marcia su Roma, del resto considerava l’opposizione armata zarista ai bolscevichi come l’antesignano diretto dei fascismi europei e, come spiega Snyder, «intese il suo ruolo di intellettuale come quello di propagare le idee fasciste in lingua russa» e verso il suo Paese d’origine. Ai suoi occhi la Russia non era una realtà formata da individui e istituzioni, ma una creatura vivente e immortale, «un organismo della natura e dell’anima». Anche quando l’ipotesi di riportare un qualche zar sul trono di Mosca era ormai tramontata del tutto, il filosofo immaginava che archiviata la «parentesi comunista» che a suo dire era frutto della corruzione proveniente dall’Occidente, Mosca avrebbe ritrovato la propria identità profonda sotto la guida di «un redentore» in grado di mettere in atto un grande progetto dai contorni metafisici, come il fascismo e il nazionalsocialismo avevano ritenuto di fare in Italia e Germania, che lo stesso Il’in sintetizzava nella formula che poneva a guida del proprio operato: «La mia preghiera è come una spada. E la mia spada è come una preghiera». Solo eliminando la spinta ai bisogni e alle rivendicazioni individuali in nome del bene supremo della comunità, si poteva salvare la Russia, e forse per quella via il mondo. Perciò, la presa del potere da parte dei fascisti nel suo Paese, aveva scritto, era paragonabile ad «un atto di salvezza».

Alla figura di Ivan Il’in, Snyder ha dedicato anche un breve saggio, Il filosofo del neozarismo di Putin, pubblicato originariamente sulla New York Review of Books e ora tradotto nel nostro Paese da Italia Storica, una piccola casa editrice genovese che si occupa soprattutto di storia militare, «con particolare riguardo alle Forze Armate dell’Asse nella Seconda guerra mondiale» e che vanta tra i suoi titoli più recenti «le memorie di un giovane volontario della Divisione “Charlemagne”» che partecipò nella primavera del 1945 a Berlino all’ultima battaglia del nazismo, a riprova dell’attenzione costante che le destre politiche e culturali riservano all’uomo forte di Mosca e alle sue idee.

IN QUEL TESTO lo storico di Yale ritorna sull’uso del pensiero di Il’in fatto da Putin e dai vertici dello Stato russo in questi anni. Già nel 2005, annota Snyder, il presidente russo comincia ad utilizzare delle citazioni del filosofo fascista nei suoi interventi pubblici e nei suoi discorsi annuali alla Duma, il parlamento di Mosca. Mentre le sue opere vengono ristampate, nel 2005 Putin decide perfino di organizzare il ritorno delle spoglie di Il’in, morto nell’esilio svizzero, in Russia: saranno nuovamente sepolte, questa volta a Mosca presso un monastero dove la polizia segreta sovietica aveva disperso le ceneri di migliaia di cittadini russi giustiziati durante il Grande terrore. Pian piano, il teorico dell’idea che la Russia fosse «l’unica fonte di totalità divina e di purezza» diventa una sorta di citazione obbligata negli ambienti del potere putiniano. Snyder ricorda come non solo Dmitry Medvedev, che con Putin si è alternato alla presidenza della Federazione Russa per alcuni anni, ha raccomandato i libri di Il’in ai giovani, ma anche il presidente della Corte costituzionale, il ministro degli Esteri e figure di rilievo della Chiesa ortodossa ne hanno citato tesi e frasi.

E anche in seguito l’ombra del filosofo fascista non avrebbe abbandonato più la scena pubblica. Così, ricorda ancora Snyder in questo suo scritto del 2018, «le tesi di Il’in erano ovunque mentre le truppe russe entravano in Ucraina più volte nel 2014».

QUANDO AI SOLDATI arrivarono gli ordini di mobilitazione per l’invasione della provincia ucraina della Crimea «tutti gli alti burocrati russi e i governatori regionali ricevettero una copia de I nostri compiti», il suo testo politico per eccellenza. Dopo l’occupazione della Crimea e l’annessione alla Russia anche Putin tornò a citare Il’in e il comandante militare che organizzò «la presenza discreta» dei russi in Donbass di lì a qualche mese «descrisse l’obiettivo finale della guerra in termini che Il’in avrebbe approvato: “Se il mondo fosse messo in salvo dalle mire di costrutti demoniaci come gli Stati Uniti, la vita andrebbe meglio per tutti. E uno di questi giorni, ciò accadrà”».

I contorni metafisici del fascismo di Il’in, l’idea che l’innocenza russa sia minacciata da un Occidente corrotto e decadente e che a questo pericolo si debba rispondere anche con la violenza «sembrano soddisfare i bisogni politici e riempire le lacune retoriche, per fornire la “risorsa spirituale” alla macchina statale cleptocratica» che rappresenta il cuore del potere russo, conclude Snyder. Anche se si ha la sensazione che dopo più di un ventennio, il ritorno delle tesi del fascismo russo abbia ormai messo radici ben più profonde. Come ha spiegato qualche anno or sono lo stesso Putin, dopo il crollo dell’Unione sovietica «il nostro Paese non si è ancora ripreso e guarito. È ancora abbastanza malato, ma qui dobbiamo ricordare Ivan Il’in: “Sì, il nostro Paese è ancora ammalato, ma noi non siamo fuggiti dal letto della nostra madre malata».