«La parte ucraina è disposta e pronta a condurre il dialogo e i negoziati con la parte russa se questa è in buona fede». Una frase del genere, pronunciata dal ministro degli esteri ucraino Dmytro Kuleba in visita a Pechino, è da considerare come un vero punto di svolta per l’evoluzione del conflitto in Ucraina. Non che sia successo ancora nulla, ma negli ultimi due anni mai un alto rappresentante de governo di Kiev si era espresso in questi termini.

Al contrario, il governo di Zelensky ha sempre opposto una durissima resistenza a ogni dialogo con Mosca. Tanto da approvare, il 4 ottobre 2022, «l’impossibilità di intrattenere negoziati con il presidente della Federazione Russa Vladimir Putin». Quella legge è stata più volte usata dal Cremlino come pretesto per accusare l’Ucraina di non essere interessata alla pace e anche ieri, una fonte governativa citata da Ria Novosti ha dichiarato «se Kiev volesse davvero i negoziati annullerebbe il decreto che li vieta».

MA TUTTO, nella visita di Kuleba in Cina, contribuisce a dimostrare l’esistenza di un piano inedito che potrebbe sparigliare le carte in tavola. In primis per la disobbedienza di Kiev alle linee programmatiche emerse dall’ultimo summit della Nato a Washington. La Russia è il nemico di oggi, la Cina quello di domani si legge tra le righe della relazione finale della tre giorni statunitense. E ancora: «Pechino dovrebbe contribuire ad appianare i conflitti in corso e non schierarsi dalla parte dell’invasore, fornendogli armi e logistica».

Persino il vice di Trump, JD Vance, nella sua prima uscita pubblica la settimana scorsa ha dichiarato che «bisogna fare in modo che la guerra in Europa dell’est finisca il più in fretta possibile e concentrarsi sul vero nemico: la Cina». E se uno dei fedelissimi di Zelensky starà a Pechino tre giorni, è fuori questione che si tratti di un’iniziativa personale. Dunque l’Ucraina sta cercando un terreno di confronto con la Russia di Putin, la stessa federazione e lo stesso presidente che da due anni e mezzo a oggi sono sempre stati definiti come il male assoluto con il quale è inutile trattare «perché con i dittatori non si tratta».

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«NATURALMENTE i negoziati devono essere razionali e avere un significato pratico, devono essere volti a raggiungere una pace giusta e duratura», ha aggiunto Kuleba, citato dalla portavoce del ministero degli esteri cinese Mao Ning. Ma come immaginare l’improvvisa scoperta di un terreno comune tra due nemici giurati che non fanno altro che darsi del nazista a vicenda dal 24 febbraio del 2022? Forse una prima risposta potrebbe nascere proprio dalla delicatissima fase degli equilibri internazionali. Se è vero che la Nato si è mostrata compatta e decisa a fornire sostegno all’Ucraina «per tutto il tempo necessario», è altrettanto vero che l’azionista di maggioranza dell’Alleanza atlantica sono gli Stati Uniti.

Dopo l’attentato a Trump e la rinuncia di Joe Biden alla candidatura, anche a Kiev devono aver iniziato a temere seriamente il ritorno del tycoon alla Casa Bianca. Se il sostegno di Washington dovesse venir meno, o essere ridimensionato significativamente, la situazione per i soldati ucraini sul campo precipiterebbe in breve tempo. E ciò non è materia da indovini, ma prova empirica data dalle enormi difficoltà che i reparti ucraini hanno riscontrato nei mesi in cui gli aiuti straordinari promessi da Biden erano bloccati al Congresso a causa dell’ostruzionismo dei repubblicani.

MUNIZIONI SCARSE, crisi energetica dovuta ai bombardamenti russi delle infrastrutture energetiche e il duro inverno alle porte fanno sì che novembre (il mese delle elezioni negli Usa) sia ormai il mese più terribile per Zelensky. Da questi timori derivano i tentativi di convocare una seconda conferenza di pace, dopo quella infruttuosa in Svizzera, alla quale questa volta siano presenti anche Russia e Cina. La visita di Kuleba a Pechino probabilmente serve proprio a questo, a sondare il terreno per trovare un mediatore, anche se evidentemente sbilanciato verso Mosca. Può darsi che la visita a sorpresa di Kuleba e Olena Zelenska a Belgrado lo scorso 12 maggio, quattro giorni dopo la trasferta del presidente cinese Xi Jinping, sia stata la prima tappa di un avvicinamento culminato nella tre giorni iniziata ieri – e il manifesto lo aveva pensato già quel giorno.

Il momento potrebbe essere propizio, dato che la Cina ha tutto l’interesse ad accreditarsi come risolutore delle controversie internazionali, erodendo l’influenza degli Usa e ponendo fine al ruolo di arbitro che, dal dopoguerra a oggi, Washington ha avuto in tutte le controversie internazionali.