Lo speaker della Camera, Mike Johnson, ha già minacciato: chiunque disturberà il discorso di Benyamin Netanyahu al Congresso, sarà arrestato. Eppure ieri centinaia di attivisti ebrei hanno occupato l’ingresso del Campidoglio a Washington: vestiti di rossi con cartelli eloquenti: «Stop arming Israel», «Stop genocidio», «Commemora i morti, combatti per i vivi».

Il primo ministro israeliano è a Washington, ieri avrebbe dovuto vedere il presidente Biden ma il Covid li terrà lontani fino a giovedì. In quell’occasione, alla Casa bianca, vedrà anche Kamala Harris, la quasi-certa-candidata democratica alla presidenza. Harris non assisterà oggi al discorso di Netanyahu al Congresso (svariate le defezioni tra i democratici), mentre fuori a decine di migliaia manifesteranno contro colui che ritengono il principale responsabile del genocidio in corso a Gaza. Molte delle realtà che scenderanno in piazza – arabi, palestinesi, ebrei, rabbini, studenti – sono dirette: invece di farlo parlare dallo scranno più simbolico, dovreste arrestarlo per crimini contro l’umanità.

AD AVANZARE la possibilità concreta di un’implicazione statunitense nei crimini israeliani certificati dalla Corte internazionale di Giustizia in recenti sentenze, c’è Human Rights Watch che ieri avvertiva: l’invio di armi Usa impiegate nei Territori occupati potrebbe essere punita dalla giustizia internazionale.

Lo speciale legame tra Israele e Stati uniti non è di certo solo politico o militare. È anche commerciale. Una protesta contro la requisizione di terre in Cisgiordania, e la violenta reazione che gli ha fatto seguito, continuano a riverberare a Los Angeles. Gli eventi risalgono al 23 giugno scorso, quando Adas Torah, una sinagoga di West Los Angeles, ha ospitato un «evento immobiliare» per promuovere «opportunità di investimento» in Israele. L’evento, aperto unicamente a potenziali acquirenti ebrei, è stato organizzato da My Home in Israel, un’associazione che si occupa di vendite immobiliari alla diaspora ebraica nei paesi occidentali, in particolar modo negli Stati uniti.

Ma l’attività è strettamente collegata anche alla sostituzione etnica in atto nei Territori palestinesi. Nello stock di My Home in Israel compaiono anche terreni e abitazioni nei territori illegalmente sottratti ai palestinesi e la loro commercializzazione equivale al reclutamento di coloni da aggiungersi a quelli che dagli Usa sono già giunti in gran numero per insediarsi su terre espropriate agli abitanti della Cisgiordania.

La campagna per espellere i palestinesi dai territori conquistati nel 1967, tramite l’esproprio di case, demolizioni di villaggi e la distruzione di campagne e uliveti, è stata ripetutamente condannata dall’Onu ed è considerata illegale dagli Stati uniti, ma si è tuttavia intensificata dopo gli attacchi di Hamas del 7 ottobre.

Il nulla osta annunciato la scorsa settimana dal governo ultranazionalista di Benjamin Netanyahu a ulteriori annessioni nella Valle del Giordano è stato il culmine di una campagna di violenze che da ottobre a oggi è costata la vita a più di 500 palestinesi uccisi dai coloni o dalle forze di occupazione. Secondo l’associazione pacifista Peace Now, le autorità israeliane starebbero inoltre per dare il via nei territori alla costruzione di 6mila nuove unità abitative per coloni.

«LA VIOLENZA e le violazioni da parte di coloni hanno raggiunto un nuovo scioccante livello – ha affermato a marzo Volker Turk, commissario per i diritti umani dell’Onu – Si rischia così di eliminare ogni possibilità pratica di stabilire un sostenibile stato palestinese». Quel progetto non viene peraltro smentito da governo di cui fanno parte oggi figure di spicco del movimento dei coloni. Il ministro della finanza, Bezalel Smotrich, ha di recente ammesso: «Siamo venuti a stabilirci su questa terra, a costruirvi e a prevenire la creazione di uno stato palestinese».

Su questo sfondo sono diventate più controverse le attività delle associazioni che raccolgono sostegno materiale e finanziario nel mondo per le colonie illegali. La rete comprende gruppi come Israel Empowered che raccoglie fondi, soprattutto in America, per la «protezione» dei coloni nei Territori. IsraelGives veicola contributi direttamente a reparti dell’esercito. One Israel Fund raccoglie attorno ai tre milioni di dollari l’anno per la sicurezza degli insediamenti in Giudea e Samaria – il nome con cui Israele designa la Cisgiordania.

Altre si concentrano sul consolidamento «immobiliare». Israel Land Fund, ad esempio, dichiara la propria missione come «assicurare che la terra di Israele rimanga in mani ebree per sempre – una casa alla volta». Come My Home in Israel, permette di investire in beni immobili e terreni in «Giudea e Samaria» e nelle Alture del Golan occupato.

Un evento di My Home in Israel, che in una sinagoga del New Jersey pubblicizzava immobili in insediamenti in territorio occupato come Ariel ed Efrat, aveva già provocato proteste a marzo a Teaneck, nel New Jersey. La vendita era stata annullata dopo una manifestazione di centinaia di attivisti pro palestinesi e dell’associazione pacifista ebraica Jewish Voice for Peace.

La sezione californiana della stessa formazione era tra le numerose sigle che hanno aderito anche alla protesta di Los Angeles. «Ci siamo mobilitati contro un evento che nella nostra città sponsorizzava la vendita di proprietà illegalmente sottratte ai legittimi proprietari palestinesi qui nella nostra città – ha dichiarato una portavoce di Jvp – e lo faceva nel contesto di un massacro che a oggi ha fatto oltre 40mila vittime».

DA QUI la protesta durante la quale però i 150 manifestanti sono stati affrontati da un numero superiore di sostenitori dei coloni. Sotto gli occhi di uno schieramento pur imponente di polizia, i filo israeliani hanno dato luogo a due ore di provocazioni presto degenerate in tafferugli. Secondo la testimonianza di una manifestante palestinese, «squadre di sostenitori del genocidio ci hanno assalito con inaudita violenza fisica e verbale, minacciandoci di morte e abusi sessuali e promettendo di completare l’eccidio di Gaza».

Nei numerosi video caricati in rete, risaltano molte bandiere e volti già avvistati negli scontri avvenuti due mesi prima, sul campus della Ucla. In quel caso sostenitori israeliani, compresi molti sedicenti membri o reduci dell’esercito di Tel Aviv, avevano selvaggiamente aggredito l’accampamento solidale degli studenti. Anche allora tutto era successo sotto gli occhi della polizia che non è però intervenuta per sedare la violenza, salvo successivamente sgomberare e arrestare numerosi studenti che ne avevano fatto le spese.

A West Los Angeles, la comunità filo oltranzista ha nuovamente dato mostra di un alto livello di coordinamento e un’aggressività che ha inevitabilmente evocato quella usata negli stessi territori dai coloni. La violenza fisica è stata nuovamente aggravata dalla copertura mediatica che ha accreditato la versione della inevitabile reazione alla «provocazione antisemita» davanti ad una sinagoga, senza menzione della vendita di beni confiscati o riferimento alcuno alle ragioni della protesta.

Il familiare teorema antisemita è stato prontamente raccolto e amplificato nelle unanimi dichiarazioni di sdegno dei politici: «Inaccettabile intimidazione», ha tuonato lo stesso presidente Biden, cui ha fatto eco il governatore della California Newsom e il ministro di giustizia Garland che ha annunciato un’inchiesta.

Un coro unanime cui si è aggiunta la condanna della sindaca progressista e afro americana di Los Angeles, Karen Bass che, all’inizio di una campagna di rielezione, non ha intenzione di esporsi a rappresaglie come quella subita da Jamaal Bowman, parlamentare di New York preso di mira, dopo che aveva criticato l’assalto a Gaza, da una campagna da 20 milioni di dollari stanziati dalla lobby filo israeliana Aipac per sconfiggerlo.

«LA SINDACA ha evidentemente scelto il proprio posto accanto ai profittatori di un genocidio, è disgustoso che lo faccia nel nome della comunità afroamericana», ha affermato un militante di Black Lives Matter. «A ogni manifestazione cui ho partecipato – ha specificato una pacifista ebrea – la violenza è stata innescata da sostenitori di Israele. Gli ebrei antisionisti continueranno a essere solidali con i palestinesi e crediamo che gli Usa debbano cessare il sostegno a Israele e al sua decennale occupazione».

La narrazione delle «orde antisemite» è stata ancora una volta compattamente adottata dalla stampa, ennesimo uso strumentale del termine per caratterizzare l’opposizione al governo Netanyahu e la strage quotidiana e infinita.

L’episodio è stato paradigmatico anche della repressione del dissenso già sperimentato nei territori da progetti come l’unità speciale di polizia istituita ad aprile dal ministro estremista per la sicurezza Itamar Ben Gvir con lo scopo di «interdire le provocazioni di militanti di sinistra, israeliani e stranieri» che contestano l’operato dell’esercito nei Territori occupati.

L’episodio ha infine avuto anche un ulteriore strascico nella mozione del consiglio municipale per finanziare con fondi pubblici ronde di sicurezza private per difendere quartieri e istituzioni ebraiche. Il decreto prevede che la città (che spende già più di un miliardo e mezzo l’anno in polizia) versi due milioni di dollari ad associazioni private come Magen Am, un servizio di vigilanza gestito dal rabbino Yossi Eilfort (appassionato di arti marziali, oltre che uomo di fede), che recluta reduci dell’esercito israeliano, gli stessi potenzialmente legati agli episodi di violenza contro studenti e manifestanti.

MAGEN AM ha legami assai saldi con la polizia cittadina, tanto da indurre il comandante della polizia di Los Angeles. Vic Davalos, a dichiarare nel 2020: «Considero Magen Am un prossimo passo nell’evoluzione di partnership pubbliche-private per l’ordine pubblico». Sul sito Magen Am pubblicizza gli «stretti rapporti» con la polizia e la propria collaborazione «prioritaria» con le forze dell’ordine e l’Fbi. Dal canto loro, le indagini della polizia sul presunto ruolo di Magen Am nella violenza a Ucla non hanno avuto seguito

A inizio luglio, l’udienza del consiglio municipale che doveva approvare lo stanziamento ha visto la rumorosa presenza di attivisti pro palestinesi. Alla fine il voto è stato rimandato ad agosto. I militanti hanno promesso di essere nuovamente in sala.