L’attrazione fatale dei liberali per la destra estrema
L'analisi In fatto di convergenza tra reazionari l’Italia può dare lezioni. Mentre ha qualcosa da imparare dalla Francia, dove di fronte alla catastrofe, la sinistra ha reagito
L'analisi In fatto di convergenza tra reazionari l’Italia può dare lezioni. Mentre ha qualcosa da imparare dalla Francia, dove di fronte alla catastrofe, la sinistra ha reagito
Si manifesta da tempo un’inquietante tendenza dei moderati di centrodestra, centro, liberali, a ritrovarsi con la destra nazionalista e reazionaria. In Francia questa tendenza era precipitata a fine 2023 nella nuova legge sull’immigrazione, approvata col voto della destra ex-gollista, del centro macronista e del Rassemblement national: a fronte di una situazione di crisi sociale, ove la percezione del tema dell’immigrazione è divenuta preminente, il «front républicain» ha ceduto. La convergenza si è riproposta dopo lo scioglimento dell’Assemblea nazionale deciso da Macron a seguito della disfatta del suo partito alle europee.
Il presidente dei Repubblicani, Eric Ciotti, e il RN di Le Pen e Bardella hanno siglato un accordo fin dal primo turno. Un pezzo di partito ha sconfessato Ciotti. Poiché però un altro pezzo è rimasto con lui, l’accordo ci sarà.
In fatto di convergenza tra le destre l’Italia può dare lezioni. La promosse Berlusconi, quando, levatosi ad alfiere del liberalismo neoliberista, oppresso dai comunisti, sdoganò sia l’etnoregionalismo leghista, sia il post-neofascismo di Fini. Erano due casi di destra estrema. Il razzismo della Lega aveva allora una curvatura antimeridionale.
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La destra produce mostri: fino a sette anni per chi lotta per il diritto all’abitareIl partito di Fini, malgrado il generoso tentativo di restyling del professor Fisichella, avrebbe tosto dato prova della sua natura: tra il drammatico G8 di Genova e la legge sull’immigrazione del 2002, non a caso denominata Bossi-Fini. Non vi fu dissenso liberale dal berlusconismo (tolto Zanone e pochi altri) e pure il mondo cattolico, l’ha appena ricordato il cardinal Ruini, si accodò: da potenza ospitante della destra moderata (tramite la Dc) si trasformò, pur dividendosi, in debolezza ospitata, senz’ombra d’ironia apprezzandone le cure dedicate alla famiglia.
Il liberalismo italiano aveva già esibito la sua fragilità negli anni Venti. Nel dopoguerra, stretto dai partiti di massa, ha condotto un’esistenza di nicchia: tra partito liberale, il presto scomparso partito d’Azione e il partito repubblicano, eredi in verità, gli ultimi due, più del liberalsocialismo di Rosselli che di Croce. Esauritasi quella vena, non c’è stato però solo Berlusconi a rilanciare il liberalismo. Una paradossale risonanza gliel’ha offerta qualche tempo dopo il Pd di Veltroni, dove alcuni ex comunisti costituiranno addirittura una corrente liberale e riformista.
Posto che per Berlusconi liberalismo significava solo deregulation, a quale liberalismo si è ispirata quest’ultima? In inglese la parola liberale suona bene. Solo che, come ha illustrato su queste pagine Mario Ricciardi, il liberalismo anglosassone ha subito un’assai profonda mutazione. Il liberalismo di Roosevelt e Kennedy, di Beveridge e Keynes, convinto della possibilità di creare una società migliore con adeguate riforme sociali, è ormai minoritario.
I liberali attuali difendono in astratto i diritti umani, ma non quelli sociali, prediligono il mercato e sono alfine attestati su posizioni belliciste. Non sono diversi i liberali europei. In più, in Europa è attecchita una specie d’intellettuali che, turbati dall’immigrazione, dalla supposta incompatibilità democratica dell’Islam, dal declino demografico, dall’aggressione di Putin all’Ucraina e da quella di Hamas a Israele, dalle proteste degli studenti contro la strage di Gaza, predicano un singolare liberalismo identitario, fondato sull’unicità e superiorità dei valori occidentali e incline a posizioni securitarie, ultra atlantiste e pure a qualche misura di polizia culturale.
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Nordio fa cose, ma il governo non lo saLa convergenza tra le destre non poteva escludere gli elettori. Il populismo è stato una mistificazione comoda per dissimulare la cifra nazionalista e reazionaria di un insieme di forze politiche apparse a destra o rinnovatesi tra gli anni 80 e 90. Inventata l’etichetta, molta e non innocente attenzione si è dedicata allo slittamento dell’elettorato popolare verso queste forze politiche.
Che c’è stata, ma senza esagerare. In Italia e in Francia a guardare i dati, posto che una quota, tra un terzo e metà, di tale elettorato ha sempre votato a destra, da ultimo si sarebbe solo radicalizzata. Ben più importanza è da attribuire alla radicalizzazione a destra dei ceti abbienti e del ceto medio indipendente. I quartieri alti delle grandi città prediligono la sinistra, ma non vi manca affatto l’elettorato d’estrema destra. I partiti cosiddetti populisti hanno un elettorato popolare, ma sono tutto fuorché partiti popolari.
Se non che: di fronte alla prospettiva di una catastrofe democratica, già iniziata in Italia e che potrebbe avere un’estensione in Germania, la sinistra francese ha avuto una reazione inattesa, ma salutare. Diversa dalla stolta disinvoltura con cui Letta e Pd hanno consegnato il governo del paese a Meloni. Convocando nuove elezioni, Macron, disperato, ha scommesso sull’eventualità di un duello al ballottaggio tra il RN e il suo partito, tale da costringere gli altri elettori a votare il secondo. Vedremo se l’azzardo gli riuscirà. Ma intanto, la sinistra francese ha deciso di superare le sue lacerazioni per radunarsi sotto le mitiche insegne del Fronte popolare. Non sappiamo quanto il nuovo fronte persuaderà gli elettori, dopo decenni di divisioni, abbandoni, mortificazioni, incomprensioni. Ma è dimostrato che qualcosa di nuovo a sinistra si può inventare.
Sono forse le terribili difficoltà del momento, la drammaticità del distacco dei ceti popolari dalla politica, l’impopolarità di Macron e delle politiche da lui promosse, la minaccia di macelleria sociale e democratica da parte del RN che hanno indotto il ravvicinamento. Potrebbe esserci perfino qualche calcolo di convenienza: il rischio di definitiva esclusione dal paesaggio politico. Si è comunque varato un programma comune. Niente di radicale: solo un compromesso. Ma fatto di riforme (nel senso classico e non usurpato) a suggellare lo slancio unitario. Sorretto da un’intensa mobilitazione popolare e civile che l’ha preteso. C’è qualche lezione da trarre per l’Italia? Sarà meglio trovarla. In groppa agli elefanti del premierato e dell’autonomia differenziata, Annibale incombe alle porte.
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