L’America Latina guarda al Messico (e a Claudia Sheinbaum)
America Latina Questioni sociali, economiche, politiche ma soprattutto geopolitiche. Dal Brasile di Lula alla Colombia di Petro, passando per il Cile di Boric, gli occhi del Sudamerica sono puntati sulle elezioni messicane
America Latina Questioni sociali, economiche, politiche ma soprattutto geopolitiche. Dal Brasile di Lula alla Colombia di Petro, passando per il Cile di Boric, gli occhi del Sudamerica sono puntati sulle elezioni messicane
Occhi puntati sul Messico. In tutta l’America latina. Non solo per il gigantismo dell’evento elettorale: quasi cento milioni di persone decidono oggi sia il nuovo presidente, sia il rinnovo di 22mila tra parlamentari nazionali e locali, nove governatori e amministratori di vari livelli locali. E nemmeno solo per il fatto, di per sé storico, che il Messico, paese machista per antonomasia, sarà guidato da una donna: Claudia Sheinbaum, delfina dell’attuale presidente, o Xóchitl Gálvez, candidata dell’opposizione.
Impossibilitato a ricandidarsi (per la Costituzione), Andrés Manuel López Obrador (Amlo) lascia dopo sei anni la presidenza con un indice di popolarità uguale o addirittura più alto di quando era stato eletto, nel 2018, col 53% dei voti. E questo, a nord e a sud del Rio Grande, è un esito straordinario.
Il nocciolo della sua politica per il Messico, ridotto allo slogan «prima i poveri», non ha forse modernizzato il sistema produttivo né migliorato il deficit fiscale, ma ha razionalizzato le enormi risorse pubbliche, dopo decenni di corruzione istituzionale dei partiti storici, e migliorato le condizioni di vita dei lavoratori agricoli. La povertà, secondo le statistiche, si è ridotta di quasi il 6%. E il peso messicano si è rafforzato.
Di questo risultato si avvale la candidata di Morena, il partito fondato da Amlo: Sheinbaum, 61 anni, docente di ingegneria nucleare, ex sindaco della capitale, secondo quasi tutti i sondaggi si presenta con un netto vantaggio, fino a venti punti sulla sua rivale. Ma se si leggono i dati disaggregati, si vede che è ancor più nettamente in testa nei sondaggi effettuati negli strati più poveri della nazione e nella piccola borghesia.
Solo nelle fasce dell’alta borghesia Gálvez le tiene testa. Amlo nel suoi sei anni di presidenza non ha migliorato la sicurezza nelle campagne e nelle periferie. E su questo tema, la sicurezza e la violenza, ha fatto campagna elettorale la candidata dell’opposizione. L’espansione esponenziale delle vendite di fentanyl negli Usa e il flusso di armi che da questo paese –pagate con la droga- sono passate in Messico hanno reso soprattutto il nord territorio di narcos.
Con i poteri forti, Amlo ha di fatto convissuto, senza essere riuscito a combatterli con successo. Con le forze armate poi ha patteggiato, affidandogli compiti di controllo sempre maggiori riguardo alla sicurezza, ma anche sulle infrastrutture pubbliche e concedendo loro un proprio bilancio finanziario. Ha garantito il quadro democratico –come dimostrano le elezioni di oggi- ma accentrandolo nella sua persona.
Altrettanto importante Amlo è stato per il subcontinente latinoamericano. Sulla stessa linea del brasiliano Lula e più tardi del presidente colombiano Gustavo Petro, si è distaccato dal progressismo impostosi in gran parte dell’America latina all’inizio del secolo. Il suo è stato un progetto di Patria Grande hiberoamericana, sulle tracce di José Martí e Simón Bolívar, capace di far valere la propria sovranità e indipendenza di fronte alla politica imperiale del gigante del Nord. Negli ultimi tre anni, su queste basi, Amlo è stato il grande alleato di Cuba, fornendogli quella quota di greggio che il Venezuela non era in grado di assicurare., ma anche mettendo in guardia il presidente
Díaz-Canel sull’urgenza di un rinnovamento della Rivoluzione cubana.
Lula e Petro, impegnati da settimane in una mediazione per assicurare elezioni, e soprattutto un post-elezioni, democratiche in Venezuela, previste per il 28 luglio, guardano con sempre maggiore preoccupazione – condivisa dal presidente cileno Gabriel Boric – al riarmo dell’Argentina di Javier Milei. Per volontà del presidente anarco–capitalista, e con il contributo degli Usa di 40 milioni di dollari, alla fine di aprile Buenos Aires ha comprato 24 jet F-16 dalla Danimarca.
Per chi saranno schierati i nuovi caccia? Per «el lado del bien» ha messo in chiaro Milei. Ovvero per la Nato, gli Usa e Israele. Una promessa solenne fatta alla generalessa, capo del Comando sud degli Usa, Laura J. Richardson all’inizio di aprile a Ushuhaia, nell’estremo sud dell’Argentina, dove è stata annunciata la costruzione di una base navale congiunta con gli Usa.
«La nostra alleanza con gli Stati uniti è una dichiarazione per il mondo» ha messo in chiaro Milei. A preoccupare i vicini dell’Argentina è l’esplicito ritorno alla dottrina Monroe esposto in più occasioni da Richardson: con la variante che oggi non sono in ballo questioni di democrazia ma i beni del subcontinente – ovvero acqua, gas, petrolio e litio – che devono essere «sotto il controllo degli americani». Ovvero degli Usa e not allowed a Cina e Russia. Fra questi beni vi potrebbero essere gli immensi giacimenti di gas e petrolio recentemente scoperti dai russi in Antartide in una zona di influenza di Argentina, Cile e Gran Bretagna.
Se sarà eletta, Claudia Sheinbaum dovrà far sentire il peso del Messico in questo complicato scacchiere latinoamericano.
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