Tutto è estremo in Antartide: il freddo, i venti, l’aridità, la bellezza. Una «magnifica desolazione», come quella lunare descritta da Aldrin, solo coperta al 98% dai ghiacci. È la terra dei record: quello della temperatura più bassa mai registrata sul pianeta (meno 89,2°C); quello dei venti più forti, il terribile blizzard, che può registrare punte di 360 km/h; quello del deserto più arido, l’area delle McMurdo Dry Valleys, dove non cade una goccia di pioggia da circa 2 milioni di anni (eppure, incredibilmente, tracce di vita sono state individuate anche qui).

In quell’immensità bianchissima in cui per migliaia e migliaia di chilometri non si incontra un solo segno di civiltà, vive, insieme a varie specie di pinguini, a balene, orche, foche leopardo e uccelli marini come albatros e sterne, soltanto un migliaio di ricercatori di vari paesi. E tutti sono allarmati: quella bellezza maestosa si rivela anche, e sempre di più, estremamente vulnerabile. Mentre infatti l’aumento della temperatura dell’oceano erode le piattaforme di ghiaccio dal basso, il riscaldamento dell’aria ne accelera la fusione superficiale. E a una velocità tale da smentire anche le previsioni più catastrofiche.

È PER QUESTO che gli esperti chiedono alla comunità internazionale di adottare urgentemente ogni possibile misura diretta a salvaguardare gli ecosistemi antartici, a cominciare da quella più ovvia: l’azzeramento delle emissioni di gas serra. Ovvia, ma ritenuta impraticabile dalla maggior parte dei governi.
Al contrario, benché l’intera regione sia attualmente protetta dal Trattato sull’Antartide del 1959, con il suo divieto di esplorazione e sfruttamento di idrocarburi e minerali antartici (tra cui carbone, ferro, nichel, manganese e uranio), si muovono nel continente bianco appetiti che non lasciano presagire nulla di buono.

A scatenare il timore di trivellazioni è stato per esempio l’annuncio della scoperta da parte della Rosgeo, la più grande compagnia di esplorazione geologica russa, di immense riserve di petrolio e gas – pari a circa 10 volte la produzione del Mare del Nord negli ultimi 50 anni e al doppio delle scorte dell’Arabia Saudita – in un’area peraltro rivendicata da Regno Unito, Argentina e Cile. L’annuncio ha unicamente un valore scientifico, si è affrettato a rassicurare il Cremlino, ma l’occasione, si sa, fa l’uomo ladro, e la presenza di un giacimento di 511 miliardi di barili di petrolio è un’occasione a cui è difficile resistere.

IL RISCHIO È CHE SI SCATENI una pericolosa corsa alle ricchezze dell’Antartide – finora scongiurata (ma per quanto ancora?) dal Trattato del 1959 – da parte dei sette paesi che rivendicano la propria sovranità su alcune parti del continente: Argentina, Australia, Cile, Francia, Nuova Zelanda, Norvegia e Regno Unito. Senza però dimenticare Russia, Stati Uniti e Cina, la cui presenza crescente nella regione non passa inosservata.
Una questione, quella della scoperta delle riserve di petrolio, che sarà con ogni probabilità discussa in Argentina il prossimo agosto al vertice dei paesi firmatari del Trattato sull’Antartide, il quale consacra la regione come un continente dedicato alla pace e alla scienza, congelando qualunque rivendicazione territoriale.

INTANTO, PERÒ, ANCHE MILEI ha voluto battere un colpo. Se già all’inizio dell’anno il presidente si era recato nella base antartica di Marambio per partecipare all’inaugurazione di un programma di controllo dell’inquinamento ambientale promosso dall’Agenzia internazionale dell’energia atomica – lui che di preoccupazioni ambientali ne ha meno di zero -, assai significativo è stato, ad aprile, il suo annuncio relativo alla costruzione di una Base navale militare congiunta con gli Stati Uniti nella Terra del Fuoco. Un’opera – ha detto incontrando a Ushuaia la comandante in capo del Comando Sud degli Stati Uniti Laura Richardson – destinata a rappresentare «il porto d’accesso dei nostri paesi al continente bianco», offrendo «un appoggio logistico concreto allo sviluppo scientifico dei diversi programmi antartici internazionali», a sostegno – ecco il punto – della « rivendicazione argentina sull’Antartide».

Le dichiarazioni di Milei hanno messo in allarme il governo cileno, alla luce della disputa tra i due paesi intorno all’estensione della loro piattaforma continentale in Antartide. In risposta, la Commissione Difesa della Camera dei deputati cilena, presieduta dalla ministra Maya Fernández, ha realizzato il 23 maggio una sessione straordinaria proprio presso la Base Eduardo Frei nel territorio antartico cileno, definita da vari deputati come «un atto di sovranità» contro «qualunque minaccia» esterna, che venga dalla Russia o dall’Argentina. «Il nostro impegno è per la pace e per la cooperazione in materia scientifica», si è limitata a dichiarare la ministra Fernández, in linea con quanto aveva già affermato pochi giorni prima il presidente Gabriel Boric, ribadendo il proprio fermo rifiuto nei confronti di «qualsiasi sfruttamento commerciale di minerali e idrocarburi».

E MENTRE LE POTENZE sono impegnate a collocare le loro bandierine, i veri abitanti dell’Antartide – quella fauna sempre più in pericolo di estinzione – si trovano ad affrontare una nuova minaccia, quella dell’influenza aviaria. La presenza del virus nel continente è stata infatti confermata da una spedizione effettuata a marzo sotto la guida dell’Università della Federazione Australiana, secondo cui gli animali più colpiti sarebbero gli skua, uccelli simili ai gabbiani che vivono a stretto contatto con diverse specie di pinguini. Una pessima notizia, considerando i pericoli a cui i pinguini sono già esposti a causa della perdita di ghiaccio marino nei siti di riproduzione: secondo lo studio coordinato da Peter Fretwell, responsabile del British Antarctic Survey, la crisi climatica potrebbe provocare la quasi completa estinzione dei pinguini Imperatore, il vero simbolo dell’Antartide, entro i prossimi 80 anni.