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El Fulbo, ovvero: un secolo di calcio argentino

El Fulbo, ovvero: un secolo di calcio argentino

Pagine di sport Da Rizzoli, di Federico Buffa e Fabrizio Gabrielli, «La Milonga del Fútbol»

Pubblicato 2 mesi faEdizione del 14 settembre 2024

Il lunfardo è l’equivalente dell’argot, specie a Buenos Aires, un gergo in cui si sommano le invenzioni onomastiche di chi si nasconde o si difende insieme ai neologismi di una condizione di classe marginale o subalterna. In lunfardo calcio non si dice football, con la stessa parola degli inglesi e scozzesi che a fine ottocento lo impiantarono in Sudamerica, e nemmeno si dice sempre fútbol, che sembra ancora un pedaggio coloniale, ma si dice volentieri el Fulbo che suona invece come una domestica appropriazione.
E alla storia secolare del Fulbo è ora dedicato il volume di Federico Buffa e Fabrizio Gabrielli, La Milonga del Fútbol Un secolo di calcio argentino (Rizzoli, pp. 509, euro 19.50) dove al talento affabulatorio del primo si intrecciano gli apporti storico-filologici del co-autore.

La scansione evenemenziale del racconto muove dal 1898 (epoca di dipendenza dagli anglosassoni, ad ogni livello) procede lungo tutto il secolo argentino (epicentri ne sono i regimi autoritari anni trenta, la lunga stagione peronista, la Junta militare, il ritorno alla democrazia) fino al 2001 e alla gravissima crisi che porta il paese prima al default poi alle cure brutali del Fondo monetario internazionale.

Il Fulbo è parte integrante della storia nazionale e, pari al tango che ne rappresenta il sound naturale, prospera dapprima tra gli immigrati che si assiepano nei quartieri della Boca, la foce del gran fiume. (Si capisce come Jorge Luis Borges, un reazionario che mai si sarebbe smentito, avesse un rapporto ambiguo con il tango – lo definiva, alla lettera, una passeggiata – e di aperto disprezzo per il calcio come attività grossolana da devolversi esclusivamente alla canaglia e alle persone volgari).

Effettivamente in Argentina il calcio nasce nei potreros suburbani, gli sterri e gli spiazzi che si aprono fra i cantieri e dove con palloni di risulta o di stracci ingaggiano partite interminabili, da sole a sole si diceva un tempo, torme di ragazzi prepuberi e adolescenti scalzi.

Lì nasce il mito del pibe, il ragazzino dalla classe innata, capace di qualunque virtuosismo, e lì si struttura lo stile nativo intensamente creolo (criollo) che non è il calcio ballato o insomma il samba dei brasiliani ma piuttosto è un repertorio cadenzato, capace di alternare il guizzo della gambeta (così gli argentini chiamano il dribbling) a pause malinconiche e palleggiate dove prevale la grammatica di base, stop/controllo/passaggio o tiro: simile insieme dà luogo a quanto gli argentini ritengono l’identità calcistica nazionale e, con fervore patriottico, essi chiamano alla spiccia la Nuestra.

Figli di immigrati, e in maggioranza ispanici o italiani (tanos in quanto napoletani per antonomasia), sono anche i campioni che ne illustrano la storia dove grande spazio hanno i nostri oriundi, e sono legioni: prima i Renato Cesarini, Luisito Monti, Raimundo Orsi, Enrique Guaita che negli anni trenta fanno grandi sia la Juventus dei cinque scudetti sia la nazionale vittoriosa ai Mondiali di Roma 1934, poi negli anni cinquanta i cosiddetti angeli dalla faccia sporca o trio carasucias o trio de la muerte addirittura (ovviamente, Maschio, Angelillo e Sivori), infine i molti altri che mai hanno smesso di tornare in ordine sparso, quali Rinaldo Martino, Bruno Pesaola, Mauro Camoranesi e Javier Zanetti. (Per tacere di colui che taluni ritengono, se non il più grande, il campione più completo di ogni tempo, Alfredo Di Stéfano, vero e proprio ombre orquesta ubiquitario e letale nelle marcature, oriundo di origini capresi, attivo fra gli anni quaranta e cinquanta nel River Plate, nei Millonarios di Bogotà e nel trionfale Real Madrid che dal ’56 si aggiudica cinque Coppe dei Campioni consecutive). Ovvio però che l’eroe eponimo di cui trattano Buffa e Gabrielli non potrebbe essere che Diego Armando Maradona di cui viene ripercorsa, nel segno dell’immenso talento come del tormento esistenziale, una vicenda in cui si assommano sordida realtà e splendente utopia, il trionfo astrale e la caduta rovinosa.

Ma epicentro del libro è il ritratto di due tecnici che rispecchiano in termini opposti e complementari la natura complessa e intimamente conflittuale dell’Argentina: l’uno è César Luis Menotti, che guida la squadra vincitrice al Mondiale casalingo e fondatamente definito «della vergogna», nel 1978, l’altro è Carlos Bilardo, che è la guida al Mondiale pure vittorioso di Messico ’86 cui aggiungerà il secondo posto di Roma ’90.

Di entrambi viene indagata nel dettaglio la fisionomia pure se qui meno efficace è la resa stilistica (perché la scelta di trattarne in seconda persona aggiunge un’enfasi che appanna il dettato).

Menotti gode nel senso comune di un pregiudizio positivo, in quanto bohémien di caratura intellettuale superiore ai colleghi, e passa sia per un fautore del «bel gioco» sia per un nemico giurato del difensivismo. Gli vengono tuttavia prescritte d’ufficio tutte le ambiguità e gli opportunismi nei riguardi del regime militare e lo si continua a ritenere un uomo di sinistra. (Di quel regime di tenebra, asfissiante, tratta oggi lo stupendo memoir intitolato Adeleida – Nutrimenti – dello scrittore argentino di lingua italiana Adrian N. Bravi). Sotto il punto di vista tecnico, Menotti è in realtà un conservatore legato alla Nuestra ed è probabilmente un allenatore sopravvalutato che in carriera, nonostante la panchina in grandi club, vince appena un torneo metropolitano con l’Huracan di Baires e una Copa del Rey con il Barcellona: dopo l’eliminazione da Spagna 1982 e dopo avere sputato fiele sul calcio italiano e sul catenaccio quale invenzione del Maligno, nel ’97 è alla Sampdoria ma viene cacciato dopo appena due mesi per manifesta insipienza tattica.

Bilardo, al contrario, è l’incarnazione del più schietto e anti-demagogico pragmatismo. Si è formato nella palestra degli Estudiantes de la Plata (che in Argentina equivalgono al vecchio Padova di Nereo Rocco, squadra avara, poco appariscente ma tosta), è laureato in medicina e cura tattica e preparazione atletica con esattezza maniacale. In patria questo eroe lunfardo se mai ce ne furono è il sottovalutato per eccellenza, stampa e pubblico ne detestano la natura laconica, i modi semplici e l’assenza di retorica, nessuno è disposto a scommettere su di lui eppure il suo Mondiale del 1986 è un autentico capolavoro: è vero che dispone di Diego all’apice della sua classe sovrana ma è anche vero che è lui a trasformare in co-protagonisti i quidam a nome Giusti, Burruchaga e compagni. (Buffa e Gabrielli hanno il merito di restituire anche a costoro una più equa fisionomia pure se – sia detto per inciso – colpisce che il nome del primo compaia in copertina e frontespizio a carattere tipografico triplo rispetto al secondo: segno che l’editore pregia molto di più l’affabulazione mediatica che non la puntuale filologia di cui Gabrielli ha già dato peraltro ampio saggio nelle monografie Cristiano Ronaldo. Storia intima di un mito globale, ’19, e Messi, ’22, entrambe edite da 66thand2nd).

L’ultimo capitolo del libro si intitola Il Fulbo è un impero sul quale il sole non tramonta mai, appunto perché dopo il 2001 ricomincia una storia del Fulbo non meno grande e variegata (quella fra gli altri di Leo Messi, di Angel Dimarìa e del loco Bielsa) ma che è ancora tutta da raccontare.

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