Quando, nel 1957, lo scrittore e saggista Albert Memmi pubblica il suo celebre Ritratto del colonizzato (Liguori), l’accento è posto non a caso sulla violenza, quella operata con la conquista, mantenuta attraverso lo sfruttamento e la presenza militare, perpetrata nel rigido rifiuto dei diritti dell’uomo degli occupati, considerati alla stregua di sub-umani.

MEMMI È UN EBREO nato nella Tunisia francese, imprigionato in un campo di lavoro durante l’occupazione nazista del Paese e che nella sua lunga carriera, è scomparso nel 2020, ha sempre riflettuto sull’intreccio delle identità, ma anche su ciò che i meccanismi del mondo coloniale producono sia sui colonizzati che sui colonizzatori. Il suo lavoro anticipa quello di Frantz Fanon, a molti più noto, lo psichiatra e filosofo della Martinica che nel 1961 pubblica I dannati delle terra (Einaudi).

Sono gli anni della lotta per l’indipendenza dell’Algeria, proclamata esattamente sessant’anni fa, il 5 luglio 1962, e le analisi degli intellettuali si intrecciano alla battaglia politica. È dalle pagine de Les Temps modernes, la rivista fondata nel 1945 da Simone de Beauvoir e Jean-Paul Sartre che si rilanciano le tesi di Memmi e Fanon. E sarà proprio Sartre nel 1958 a firmare l’introduzione del libro che più di altri fa comprendere all’opinione pubblica francese il portato di quanto in quel periodo accade ad Algeri: la vastità della ferita inferta alla coscienza della République che per molti versi non ha mai più smesso di interrogare la democrazia francese.

Quel testo, che torna ora per i tipi di Einaudi che lo pubblicarono già all’epoca a pochi mesi dall’uscita a Parigi, è il memoir con il quale Henri Alleg raccontò il periodo trascorso nelle mani dei paracadutisti, inviati ad Algeri per reprimere i moti indipendentisti, e le violenze sistematiche cui fu sottoposto.

«LA TORTURA» (Einaudi, pp. 106, euro 11, introduzione di Jean-Paul Sartre, postfazione di Caterina Roggero) descrive una rapida e inesorabile discesa agli inferi, un percorso nell’orrore puro, nell’odio selvaggio che lascia però emergere, accanto alla sofferenza della vittima, il volto e la psicologia dei carnefici che bevono birra e si scambiano battute dandosi il turno nell’infliggere sempre nuovi tormenti.

Una scena da “La battaglia di Algeri”, diretto da Gillo Pontecorvo nel 1966

Direttore del quotidiano comunista Alger républicain, Alleg è condotto in un edificio in costruzione nei pressi di piazza El-Biar, nella parte alta della ville blanche, come i francesi avevano ribattezzato la metropoli di quello che all’epoca era un dipartimento di Francia alla stregua di Bretagna o Normandia, e sottoposto ad ogni tipo di tortura – con elettrodi applicati ai genitali, simulando un annegamento, con il fuoco avvicinato a più parti del corpo – perché riveli chi lo ha ospitato dopo che si è dato alla macchia in seguito all’arresto di un altro esponente comunista locale, il matematico Maurice Audin che non sopravviverà alle sevizie.

Henri Alleg invece ce la farà, non solo riuscirà a non fare i nomi dei propri compagni, ma una volta rilasciato dai parà utilizzerà il racconto di quella tragica esperienza – nell’originale francese intitolato La Question – per rivolgersi all’opinione pubblica del proprio Paese. Le 60mila copie della prima tiratura sono esaurite in poche settimane e quando la censura interviene per vietare la circolazione del testo «lesivo dell’immagine delle forze armate», è un editore svizzero che rilancia la sfida, mentre il memoir è rapidamente tradotto in altri e l’edizione inglese circola a livello internazionale. In qualche mese ne saranno vendute poco meno di 200mila copie.

L’effetto è in qualche modo paragonabile al J’Accuse di Zola nel caso Dreyfus. Alleg è un parigino che si è trasferito ad Algeri per lavoro e fede politica, un francese al pari di coloro che hanno cercato di strappargli delle risposte infierendo sul suo corpo fin quasi ad ucciderlo: quanto sta avvenendo in Algeria non riguarda un «altrove», per quanto improbabile, ne un altro da sé, «i musulmani» le cui sofferenze la maggioranza dei francesi finge di non vedere, ma parla di cosa il Paese è diventato, interroga l’orizzonte verso il quale è in cammino. Non si tratta di uno slittamento semantico, bensì del bagliore di una presa di coscienza.

LO SA BENE JEAN-PAUL SARTRE che nell’introduzione al diario dolente di Alleg spiega come quindici anni prima, nel 1943, erano i tedeschi a torturare i francesi, mentre ora in Algeria sono soldati di Parigi che torturano dei loro connazionali. «Atterriti dallo stupore, i francesi scoprono questa evidenza terribile» che cela in sé la possibilità di una metamorfosi altrettanto sinistra: «l’odio errante e anonimo, un odio radicale dell’uomo» che rende veterani e giovani di leva strumenti del terrore. La tortura racchiude il senso ultimo del dominio coloniale: «l’annullamento dei colonizzati». Quella guerra, conclude il filosofo, non può essere umanizzata, solo fermata. Sopravvivendo alla tortura, Henri Alleg ha indicato alla Francia una possibile via d’uscita.