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La mina

La minal centro Mischa Kamenetzki e alla sua sinistra Giaime Pintor, 1940-1941

Giaime Pintor Da Servabo di Luigi Pintor (Bollati Boringhieri, 1991) riproduciamo il capitolo La mina in cui l’autore racconta come ha appreso della morte del fratello e il viaggio per recuperarne il corpo.

Pubblicato 10 mesi faEdizione del 1 dicembre 2023

Non so perché la persona incaricata dell’informazione non me ne parlò tranquillamente a casa sua. Mi convocò come un cospiratore nello scantinato di un palazzo nobiliare, ingombro di bauli e brandine, che serviva da rifugio notturno. E in quella atmosfera irreale, alla luce fioca di una lampada, cominciò un assurdo racconto. Un piccolo gruppo, una notte di dicembre, uno sperduto paese del sud, un fronte di guerra da attraversare, un sentiero di campagna lungo un torrente, un campo minato sfuggito ai ricognitori, uno scontro a fuoco, un’esplosione nell’oscurità. E alle prime luci dell’alba il corpo riverso in una vigna sotto un muretto.

Era una successione idiota di parole che non combinavano in nessun modo con l’immagine di mio fratello. Chi lo conosceva come me non poteva scoprirlo all’improvviso così vulnerabile, in quel luogo romanzesco, in quella posizione innaturale, insensibile a ogni richiamo, inerte nel giorno e nella notte sotto un cielo invernale. Non ho mai assimilato neppure dopo molti anni uno scenario così inverosimile.

Mi vennero pensieri deviati e confusi. Forse nei giorni di settembre, quando in bicicletta mi ero spinto sulle vie consolari per cercare un varco tra i posti di blocco, avrei potuto raccontargli che la città era circondata e dissuaderlo dai suoi progetti. Oppure avrei potuto esserci anch’io, in quella spedizione, per suggerirgli di cercare rifugio in un fossato piuttosto che in un vigneto. Erano strani pensieri connessi ai nostri giochi, gare in bicicletta e duelli con cerbottane in giardino, artifici che cercavano di annullare il tempo.

Quel racconto continuò con molti dettagli, che c’entravano gli inglesi, che c’era una mappa disegnata da un sopravvissuto, che c’era da qualche parte una lettera per me, che ne dipendeva la vita di altre persone paracadutate oltre le linee, che perciò bisognava tenere segreta la notizia. Dunque era passato molto tempo ed ero stato tenuto nell’ignoranza, chissà che fine aveva fatto quel corpo insepolto. Me ne andai da quello scantinato poco dopo l’alba, le strade erano più fredde del solito e non incontrai una sola persona. Ricordo la città sempre piovosa ma in quel mattino di febbraio pioveva sul serio. Arrivai a casa fradicio con un pensiero fisso: come faccio a dirlo a mia madre? Era una donna saggia, ma questa morte dopo quella di nostro padre era un’esagerazione.

Nei giorni della pace non sarà semplice raggiungere quel paese diroccato, quella gola e quella vigna che mi erano state descritte con tanta minuzia. Con il mio vecchio zio, afflitto e silenzioso, viaggiammo per più giorni attraversando borghi desolati, in un paesaggio dove all’antica povertà si sommava la devastazione. Quando la guerra si allontana le sue tracce sono spettrali, c’erano cimiteri improvvisati e paesi dove non restava un muro più alto di un metro. Giunti a destinazione non trovammo un solo tumulo dove ce l’aspettavamo ma più d’uno, i corpi di soldati di varie nazionalità e di civili malcapitati.

Fu un rito funebre molto inconsueto. Senza l’aiuto di un becchino improvvisato non avremmo identificato neppure con approssimazione i resti di quella strana persona che aveva delle galoches nello zaino, perché non amava i disagi della cattiva stagione. Non solo morte violenta ma subitanea, a giudicare dalle vertebre spezzate. Chino sulla fossa il vecchio zio, sapiens cor et intelligibile, provvedeva alla certificazione. Non ero abituato e forse avrei dovuto lasciare che i morti seppellissero i morti, come raccomandava il messaggio dall’oltretomba. Però i contadini del luogo, donne in lutto e ragazzi scalzi, onorarono con bandiere questo ritrovamento e il trasporto in una tomba meno irregolare. Fu per me una malinconica conferma, tra le tante fornite dalla guerra, di quelle virtù popolari che resteranno un mito indistruttibile della mia giovinezza.

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