Editoriale

Schlein, Conte e le scelte che mancano

Elly Schlein, Giuseppe Conte, Nicola Fratoianni, Angelo Bonelli e Riccardo Magi brindano alla festa di Avs foto AnsaI leader del centrosnistra alla festa di Avs – Ansa

Centrosinistra Sulla Rai ha ragione Schlein, sullo stop a Renzi hanno ragione Conte e Fratoianni. Ma, al di là dei singoli temi, manca una regia della coalizione: la leader Pd deve uscire dallo stato zen, e un po' democristiano, di incassatrice, e provare a dare un profilo all'alternativa

Pubblicato 15 giorni faEdizione del 1 ottobre 2024

Sulla Rai ha ragione Schlein, e hanno torto Conte e rossoverdi: se insieme decidi che le nomine si devono fare con nuove regole richieste dalle Ue, poi non puoi correre a nominare i tuoi nel cda di TeleMeloni, quando le nuove regole ancora sono in mente dei. Non puoi correre a nominare due membri del cda quando si sa solo che in ottobre il Parlamento inizierà sulle nuove regole una prevedibilmente lunga e tortuosa discussione.

Su Renzi, invece, hanno ragione M5S e Avs: Schlein ha commesso una grave leggerezza a lasciar credere al (ex?) rottamatore, che non ha mai rinunciato alla commistione tra politica e consulenze strapagate, che nel nuovo centrosinistra ci sia uno spazietto anche per lui. È un errore da matita blu, perché Renzi ha afferrato una cosa banale: dopo essersi illuso che il Pd a guida Schlein naufragasse in pochi mesi, lasciando a lui «praterie al centro» che si sono rivelate inesistenti, ha capito che lo stesso obiettivo – la distruzione del Pd e del centrosinistra – può riuscirgli meglio dall’interno.

Dove Conte, comprensibilmente, non vuole avere più a che fare con uno che nel 2021, in piena pandemia, fece cadere il suo governo con una serie di scuse risibili. Se poi si guarda ai cosiddetti temi, se è vero che il cuore giallorosso Pd-5S-Avs ha ancora molti nodi irrisolti a partire dall’Ucraina, con Renzi le distanze sono incolmabili: basti dire che l’ex premier è ancora uno strenuo tifoso del blairismo e del neoliberisimo, che Schlein sta tentando a fatica di rimuovere dal dna del Pd. Una distanza che si snoda dunque sui temi del lavoro, del precariato, della giustizia, delle infrastrutture, del fisco e via elencando.

La richiesta di Conte e Fratoianni-Bonelli di chiudere questa sfortunata parentesi balneare di Renzi è dunque fondata: Iv è sull’orlo dell’estinzione, non ha voti da portare e neppure idee utili alla causa di un centrosinistra assai più radicale rispetto ai brodini del passato, e dunque non varrebbe più neppure la pena di parlarne.

Questi due ultimi casi, Rai e Renzi, al di là dei torti e delle ragioni, segnalano però un problema assai più grave, tutto in capo alla segretaria dem: la mancanza di una regia politica del centrosinistra in grado di evitare continui strappi che offrono il fianco a larghi pezzi di establishment che non vedono l’ora di sparare a zero sull’inconsistenza delle forze alternative a Meloni. Conte ha le sue responsabilità: pressato da Grillo che ne contesta la leadership, ansioso di riequilibrare i numeri dopo essere stato più che doppiato alle europee dai dem, non perde occasione per fare sgambetti.

Probabilmente si illude che, prendendosi il Tg3 o Rainews, potrà ribaltare i rapporti di forza. Comunque vuole provarci, perché il sogno di tornare a palazzo Chigi non è del tutto svanito. Non si arrende all’idea di essere un partner minore, e per certi versi è legittimo. Solo che, per distinguersi, alimenta contraddizioni: si infila nel gruppo più a sinistra nell’europarlamento e non archivia l’antico flirt con Trump, prova a fare le pulci al Pd da sinistra e al contempo sui migranti continua a strizzare l’occhio a tesi tutt’altro che progressiste, negando il sostegno al referendum sulla cittadinanza.

Schlein ha due meriti: il primo, non scontato, è avere sostanzialmente pacificato il Pd, che resta una maionese pronta ad impazzire, come si vede ogni giorno sull’Ucraina, tra l’elmetto di Picierno e Guerini e i ramoscelli d’ulivo di Tarquinio. E tuttavia oggi nessuno lì dentro contesta la guida dell’aliena Elly, uscita tonificata dalle europee. Ha anche il merito di non sparare mai sui potenziali alleati, tenendo un profilo «testardamente unitario» che nelle urne ha pagato.

Ma quanto può durare questo atteggiamento zen e un po’ democristiano? Può l’aspirante federatrice continuare nella sua opera di restyling dell’immagine del Pd, mondandolo dai tanti errori del passato (comprese le lottizzazioni in Rai) senza curarsi di costruire una cornice dentro cui far nascere almeno un embrione di coalizione? Senza sporcarsi un po’ le mani? Elencare 5 punti, dalla sanità ai diritti ai salari, appare insufficiente. In una Europa in cui dilagano destre persino più estreme di Fdi il sentimento antifascista purtroppo non basta per farsi cemento di un’alleanza. E l’illusione che, alla viglia del voto, i lacci della legge elettorale costringano tutti a più miti consigli rischia di rivelarsi una trappola. Lo si è già visto nel 2022.

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