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La metastasi fatta di ultrà israeliani e destre americane

La metastasi fatta di ultrà israeliani e destre americaneLos Angeles, 2 maggio: la polizia abbatte con violenza le barriere alzate dai manifestanti pro Palestina nel campus della University of California Los Angeles (Ucla) – Ap/Jae C. Hong

Usa e Palestina Negli Usa è la saldatura tra ebrei e palestinesi l’avversario di destre, lobby, poteri economici e grandi media. Nei campus come nelle piazze, con tecniche da Fbi e soldi di grandi aziende

Pubblicato 6 mesi faEdizione del 22 maggio 2024
Luca CeladaLOS ANGELES

Mentre Biden dichiara «oltraggiosi» i mandati di cattura chiesti dal procuratore dell’Aia per Netanyahu e i capi di Hamas, contro i crimini commessi a Gaza continuano le dimissioni all’interno della sua stessa amministrazione. Ultimi sono stati Harrison Mann, maggiore dell’intelligence militare e Lilly Greenberg Call, dell’Interior department. Entrambi hanno tenuto a sottolineare di essere discendenti di ebrei sopravvissuti all’Olocausto, per confutare la narrazione ufficiale della necessaria “protezione degli ebrei”.

Sono stati gli ultimi sintomi della dissociazione esercitata dal conflitto sulla società americana e ancor più di quella che a marzo Peter Beinart definiva sul New York Times “the great rupture in Jewish American life”, “la grande frattura” che lo sterminio di Gaza ha provocato nella community ebraica americana. Per Beinart, con l’attentato del 7 ottobre e l’eccidio che lo ha seguito, la crescente tensione ideologica fra progressismo e sionismo si è convertita in un terremoto che ha “reso la solidarietà coi Palestinesi un tema centrale per la sinistra americana quanto lo sono stati la difesa dell’aborto o l’opposizione ai carburanti fossili”.

MOLTI GIOVANI EBREI, spesso cresciuti in famiglie e sinagoghe sioniste, hanno rifiutato la militarizzazione dell’identità ebraica a sostegno della guerra ed hanno assunto un ruolo di primo piano nell’attivismo pacifista. Intanto, a favore della guerra totale si attrezzava un impressionante apparato per silenziare il movimento studentesco attraverso l’equivalenza fra dissenso e antisemitismo.

Vi è, nella virulenza della reazione, nella compattezza e finanziamento della repressione, il senso palpabile che la solidarietà fra ebrei e palestinesi nel movimento costituisca una minaccia esistenziale per il partito della guerra. Contro il movimento studentesco sono allineati amministratori, gran parte dei due partiti e una imponente macchina di propaganda e censura in cui figurano lobby filoisraeliane come la Aipac (American Israel public affairs committee) ed una rete di sostenitori privati.

Il Washington Post ha rivelato le pressioni esercitate sul sindaco di New York Eric Adams da un gruppo di facoltosi imprenditori per reprimere l’occupazione della Columbia University. In quell’elenco spiccano, accanto a Joshua Kushner, fratello del genero di Trump, Howard Schultz, fondatore di Starbucks e quello della Dell (Michael Dell) oltre al direttore di fondi di investimento Bill Ackman.

ACKMAN È PARTICOLARMENTE ATTIVO nella causa sionista ed aveva già orchestrato la campagna contro le rettrici di Harvard e U Penn (dimissionate a gennaio per eccessiva tolleranza dell’antisemitismo). Sempre di Ackman sarebbe stato il finanziamento della spedizione punitiva contro la tendopoli degli studenti di Ucla, operazione a cui hanno partecipato reduci dell’esercito israeliano.

L’assalto della notte del 1 maggio è durato per quasi quattro ore nell’indifferenza delle autorità, malgrado le dirette video. In seguito, gli arresti ci sono stati, ma unicamente fra le vittime. Anche in questo frangente è stata rilevante la responsabilità dei media, a dir poco timidi nel discostarsi dalle versioni ufficiali (su “antisemitismo” e “manifestanti pro Hamas”).

DI RECENTE PERÒ alcuni dei maggiori quotidiani americani hanno prodotto una copertura più lucida sulla guerra ed il movimento che vi si oppone. Il magazine domenicale del New York Times ad esempio ha appena pubblicato una meticolosa indagine sull’escalation della pulizia etnica in atto in Cisgiordania, intitolata “The Unpunished: How Extremists Took Over Israel”.

Los Angeles, 15 maggio: la polizia torna alla Ucla Ap/ Leonard Ortiz

Attraverso indagini sul campo, centinaia di interviste a funzionari e politici (compresi quattro ex premier) e l’esame di atti giudiziari, gli autori del reportage, l’israeliano Ronen Bergman ed il premio Pulitzer Mark Mazzetti, documentano gli sfratti, demolizioni di case, incendi di uliveti, costruzione illegale di strade e l’uccisione, da ottobre, di oltre 500 Palestinesi in Cisgiordania, dove le azioni del governo Netanyahu sembrano ormai allineate appieno con l’eufemistico “piano decisivo,” formulato dal ministro ultranazionalista Bezalel Smotrich, per il compimento della predestinazione divina ed esclusiva del popolo israeliano ad Eretz Yisrael, ovvero l’intero territorio dal Giordano alla costa.

L’ARTICOLO DEL TIMES ERA stato preceduto, già a marzo, da un video reportage del Wall Street Journal (altra testata non esattamente di estrema sinistra) che documentava ugualmente l’impennata di violenze contro villaggi palestinesi nell’ambito di un progetto palese per consolidare il dominio geografico sotto la copertura dell’emergenza”a Gaza. Tutto con la connivenza se non il sostegno attivo di esercito o forze paramilitari e con i finanziamenti del ministero per l’Agricoltura.

Le inchieste documentano quella che la corrispondente ebrea israeliana di Haartez, Amira Haas, definisce la “normalizzazione dell’ingiustizia”, un chiaro disegno di sostituzione secondo le dottrine proclamate da ministri come Ben Gvir (che inneggia a prossime colonie anche a Gaza) nel nome della “vittoria definitiva.” Sul Times, Bergman e Mazzetti sottolineano l’impunità garantita ad un movimento dei coloni che ha ormai enorme influenza sul governo e l’effetto corrosivo della connivenza del governo sulla stessa democrazia israeliana.

È una tesi che sempre questa settimana, sul Washington Post, ha sostenuto anche Yuval Noah Harari in un lungo editoriale intitolato “Will Zionism Survive the War”. Harari, storico della Hebrew University di Gerusalemme, per la verità non accetta la condanna totale del sionismo, rivendicando la legittimità delle sue versioni più illuminate. Riconosce però che il progetto di supremazia dell’etnostato ebraico costituisce la politica ormai operativa, e distruttiva, del governo Netanyahu, un premier oggi indiziato di crimini di guerra, che ebbe dopotutto stretti legami con l’opposizione agli accordi di Oslo ed all’assassinato premier Yitzhak Rabin.

E LA “CORROSIONE” DELLA DEMOCRAZIA non è limitata ad Israele. L’ultranazionalismo israeliano ha dopotutto stretti legami, non solo con ambienti sionisti estremisti in America, ma con l’oltranzismo speculare della destra evangelica, evidenziati dalla sponda Maga in Congresso e negli gli attacchi violenti agli studenti – compreso quello di un parente di Meir Kahane (fondatore dell’organizzazione terrorista Jewish Defense League, che lo scorso 7 maggio con l’auto ha tentato di investire studenti a New York). 

L’estrema censura del dissenso negli Stati uniti (come altrove le manganellate didattiche) e l’inquisizione maccartista di amministratori “inadempienti” trascinati davanti alle commissioni parlamentari, sono in questo senso espressioni di una deriva speculare a quella dello stato che sigilla Gaza, chiude Al Jazeera ed ora sequestra le telecamere della Ap. Mentre le campagne di disinformazione propagandistica, così volenterosamente riprese da molta stampa, rammentano le operazioni Cointelpro usate da Jay Edgar Hoover contro la New Left e le Pantere Nere, la presenza sui campus americani, come a Ucla, di reduci dei reparti di occupazione del Idf in veste di provocatori, chiude il cerchio con la violenza di Gaza.

La vana illusione di contenere un conflitto locale è definitivamente evaporata. La metastasi riguarda l’uso strumentale dell’estremismo nazionalista per consolidare il potere delle nuove destre, e come tale non è certo ristretta a Israele o all’America. Lo sdoganamento sistematico dell’autoritarismo e dell’estremismo, a sostegno del teorema della guerra giusta, produce oggi sulle sponde dell’Atlantico, come su quelle del Mediterraneo, simili effetti corrosivi. Lo spregio quasi performativo dei diritti (di donne, Lgbtq, migranti, minoranze) da ridimensionare negli “stati rossi” americani come al parlamento europeo, o le crisi costituzionali con cui si flirta in Italia come a Washington o Gerusalemme, sono indice di una accelerazione globale ed una possibile definitiva involuzione da cui ci separano appena un paio di elezioni.

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