L’impronunciabile genocidio, una censura alla domanda di verità
Guerra e parole Si dovrebbe ringraziarlo, il papa, se ha finalmente in tre parole chiarito che una categoria giuridica non è un’opinione politica, a dispetto della maggior parte dei leader politici
Guerra e parole Si dovrebbe ringraziarlo, il papa, se ha finalmente in tre parole chiarito che una categoria giuridica non è un’opinione politica, a dispetto della maggior parte dei leader politici
Ma cos’ha detto di sbagliato il papa per attirarsi un tale profluvio di reazioni, anche scomposte e aggressive? Cosa c’è di tanto grave in quella domanda che brucia l’umana ragione almeno dal 26 gennaio scorso?
Da quando cioè la Corte internazionale di giustizia dell’Aja ha dichiarato «fondata» e «plausibile» l’accusa di genocidio avanzata nei confronti di Israele da una delegazione legale del Sudafrica. Perché l’uso della parola «genocidio» da allora suscita incendi d’ira e sussurri di riprovazione, o anche solo sospiri di perplessità? Tutt’e tre i tipi di reazione sono razionalmente incomprensibili, e quelli della perplessità, a guardar bene, lo sono ancora di più.
La perplessità, questo ricciolo dell’interrogativo, quintessenza di gentilezza e di pietà, origine dell’umano e suo culmine: non vira forse nel suo contrario, l’ignava o corriva volontà di ignorare il vero, se zittisce chi chiede una risposta a un dubbio risolubile, un sì o un no a un’ipotesi accertabile, se scoraggia chi chiede conoscenza? Se ciò che avviene a Gaza «s’inquadra nella definizione tecnica» di genocidio, «formulata da giuristi e organismi internazionali», dato che a detta degli esperti ne ha le caratteristiche. È questa domanda che ha sconcertato mezzo mondo, e questo fatto solo basterebbe a mostrare il disordine intellettuale e morale profondissimo in cui mezzo mondo – il nostro – è caduto.
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Sterminare, espellere, ricolonizzare: il piano israeliano per il nord di GazaPerché se «genocidio» è una parola che brucia, volerla omettere o parafrasare al punto da censurare una domanda di verità solo perché la contiene vuol dire preferire l’ignoranza o peggio la rimozione alla giustizia. Infatti chiedere giustizia che altro è se non chiedere, in primo luogo, verità – qualunque essa sia – e in secondo luogo che tutti la sappiano. Non chiedere, rimuovere – solo perché questa parola brucia – è sfiorare la banalità del male. Tanti sono gli argomenti con cui si vorrebbe chieder ragione di tutte quelle reazioni, dell’ira come della riprovazione come della perplessità, che occorre ordinarli.
In primo luogo, si dovrebbe ringraziarlo, il papa, se ha finalmente in tre parole chiarito che una categoria giuridica non è un’opinione politica: a dispetto della maggior parte dei leader politici in Italia, in Europa e nel mondo occidentale, che l’hanno violentemente politicizzata o furbescamente ignorata perché «divisiva». E a dispetto di tanti intellettuali e giornalisti pronti a rispettare la censura.
In secondo luogo bisognerebbe ricordare tutte quelle “caratteristiche” che fanno precisa la definizione di genocidio elaborata dal grande giurista Raphael Lemkin, e adottata dall’Onu nel 1949, e la sottraggono alla sfera delle opinioni: a questo potrebbe bastare il IV Rapporto della Relatrice Speciale dell’Onu Francesca Albanese, Anatomia di un genocidio, già disponibile in rete anche in traduzione italiana, dove le condizioni di applicazione del concetto ai fatti, sia dal punto di vista dell’actus reus, le azioni, sia da quello della mens rea, le intenzioni, sono minuziosamente analizzate.
In terzo luogo, almeno per capire l’urgenza della domanda di verità, bisognerebbe ricordare alcuni numeri, non solo quelli delle vittime accertate, dell’enorme massa ulteriore di quelle non accertate, della proporzione di civili, donne e bambini, ma anche quelli della distruzione di registri, scuole, moschee, patrimonio antico, reti idriche e risorse agricole, che cancella per sempre ogni memoria, identità e capacità di sussistenza nazionale, economica e culturale.
In quarto luogo dovremmo chiederci se l’uccisione di 233 operatori dell’Unrwa, l’agenzia di sostegno dei rifugiati, e la recente disposizione legale per la sua espulsione da Israele non confermi l’auto-esclusione di Israele dalle Nazioni Unite, questo «covo di antisemiti». In quinto luogo dovremmo prestare ascolto all’ex procuratrice del Ruanda, Silvana Arbia, quando ci ricorda che ogni stato su questa terra ha l’obbligo, ben prima che di perseguire e punire, di prevenire il compiersi di un genocidio: e come si fa se non si può neppure pronunciare le parola? Ben forte l’ha pronunciata la Corte quando a tre, quattro riprese ha ribadito le sue prescrizioni agli stati perché impedissero, fermassero la cosa. Qualcuno disse che era una bestemmia.
Ma infine, torniamo alla nostra vera domanda, rivolta ai perplessi, con un grazie di cuore ad Anna Foa che la sua perplessità sembra averla oggi sciolta (La Stampa, 18/11). Davvero è «inutilmente divisivo» l’uso di questa parola? Divisivo non so, certo inutile no, perché mostra due cose, alle quali diventiamo ciechi censurandola.
La prima è che si spezza finalmente il nesso fra la sacra memoria della Shoah, della sua unicità che nessuno contesta, e l’eccezionalismo di Israele, il ricatto in virtù del quale solo per lo stato ebraico in quanto tale cadono tutti i vincoli che l’umanità ha eretto per non essere più violata nel corpo e nell’anima di nessun individuo, di nessun popolo. La seconda, che lo si vede finalmente e lo si vede tutto, il secolo scorso: fu proprio il secolo dei genocidi che si prolunga in questo, come i secoli precedenti dei nostri genocidi coloniali, che la nostra memoria ha nascosto dietro la gloria dei nostri Lumi, l’età dei diritti. Separiamola finalmente, quella tenebra da quel po’ di luce. Forse non è un caso che, oltre alla nostra ragione, ce lo dica oggi una voce che viene dall’alto.
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