La magistrata Egle Pilla: «Non serve fare leggi sull’onda dell’emozione»
Da problema culturale (e strutturale), il tema della violenza contro le donne piomba nel dibattito pubblico per lo più sull’onda del caso di cronaca nera più eclatante, quello di cui appare impossibile non occuparsi. Così la situazione langue per la maggior parte del tempo, con scarsi o nulli provvedimenti di natura legislativa al riguardo, fino al momento in cui non si scopre il tema – forse con meraviglia o più probabilmente per interesse contingente – e si procede a inventarsi «con urgenza» un qualcosa utile a dimostrare che la questione è in cima ai pensieri di chi fa le leggi. La magistrata Egle Pilla, consigliera in Corte di Cassazione, all’ultimo congresso palermitano di Area Democratica per la Giustizia (di cui è presidente) nella sua introduzione ai lavori ha detto che, per quanto riguarda la violenza contro le donne,«accanto alla produzione normativa quanto mai feconda in tema di contrasto alla violenza di genere e in attuazione delle direttive comunitarie, occorre una visione più complessiva che crei una rete di competenze qualificate e condivise, anelli di un’unica catena che agiscano sin dalla formazione nelle scuole, per proseguire attraverso i servizi sociali e strutture sul territorio che aiutino a crescere rifiutando ogni forma di violenza psicologica e fisica».
Pilla, la storia, anche quella molto recente, ci insegna che legiferare sull’onda delle urgenze produce provvedimenti che alla prova dei fatti si rivelano sostanzialmente inutili. Affrontare il tema della violenza contro le donne col solo codice penale, cioè in buona sostanza con la repressione, è sufficiente?
Il tema della violenza di genere e dei femminicidi coinvolge ciascuno di noi, la società civile, la politica e le istituzioni e richiede un intervento complessivo, compreso il profilo normativo. Non è risolutivo legiferare in occasione di eventi tragici sull’onda dell’emozione. La legislazione attuale è molto avanzata ed articolata, frutto altresì del recepimento di indicazioni che ci vengono anche dall’Europa. Anche per questo interventi estemporanei che non colgono la coerenza di tutto l’impianto normativo rischiano di rivelarsi inefficaci.
Cosa manca secondo lei al cosiddetto Codice Rosso, che in questi anni ha mostrato diverse criticità?
Occorre a mio parere intervenire su più livelli: attraverso l’educazione anche scolastica che respinga uno statuto proprietario della donna e che insegni anche alle donne il rispetto e la consapevolezza di sé. Attraverso la diffusione di una diversa cultura che respinga stereotipi femminili ai quali le donne devono rispondere. Attraverso la formazione e l’alta qualificazione degli operatori sociali e delle strutture intermedie che si occupano del disagio femminile. Attraverso politiche di occupazione che garantiscano alle donne lavori adeguati e retribuzioni dignitose che le rendano autonome ed indipendenti. In questo quadro si deve collocare un apparato normativo che operi in prevenzione e speriamo sempre meno attraverso la repressione. L’efficacia delle norme richiede specializzazione e alta formazione di tutti coloro che sono chiamati ad applicarle, nonché i mezzi e le risorse necessarie.
Quale il ruolo della giurisdizione in questo contesto?
Il ruolo della magistratura è rilevante ma molto complesso. La magistratura inquirente è chiamata a compiti delicatissimi essendole richiesta tempestività nell’intervento, ma anche accuratezza e approfondimento nell’indagine. La magistratura giudicante deve con altrettanta tempestività assicurare risposte che garantiscano i diritti di difesa e al contempo tutelino la vittima. Da qui la enorme responsabilità e la difficoltà del ruolo cui siamo chiamati.
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