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«La camorra mi voleva maschio alfa, ma io ero e sono Daniela»

«La camorra mi voleva maschio alfa, ma io ero e sono Daniela»Daniela Lourdes Falanga alla marcia per il TdoV dello scorso anno a Roma

OGGI IL TRANSGENDER DAY OF VISIBILITY Lourdes Falanga ha rifiutato il suo destino sociale e quello biologico. «È stato più facile sottrarmi alla criminalità organizzata che presentarmi come donna. L’affermazione di genere resta ancora estremamente complicata», dice. Adesso si batte per i diritti lgbtqia+ e insegna la pluralità nelle scuole: «Il TdoV 2024 arriva in un momento difficile: la negazione delle nostre istanze è diventata istituzionale. Percepiamo un’ostilità politica»

Pubblicato 7 mesi faEdizione del 31 marzo 2024

Daniela Lourdes Falanga. Due nomi scelti dopo aver affermato il proprio genere e un cognome mantenuto nonostante il rifiuto del padre, un boss della camorra finito all’ergastolo. Attivista nella segretaria nazionale di Arcigay e nel circolo napoletano Antinoo, operatrice del consultorio Incontra di Portici, Falanga gira le scuole per insegnare a ragazze e ragazzi «quanto è varia l’umanità» e scende in piazza ogni volta che può per difendere i diritti della sua comunità e non solo. La sua storia è raccontata nel docu-film Red Shoes-Il figlio del boss, presentato nel 2020 alla mostra del cinema di Venezia. Con il manifesto Falanga parla alla vigilia del Transgender Day Of Visibility (TdoV), il giorno della visibilità trans che cade oggi, mentre sulle prime pagine dei giornali è tornata la camorra perché il boss dei Casalesi Francesco Schiavone, detto Sandokan, si è pentito. «Non nutro molta fiducia nel fatto che un capo mafioso così importante possa pentirsi davvero. Oltre a chiarire una serie di situazioni, se fosse sincero, dovrebbe dire dove si trova il suo patrimonio economico e sgominarlo», afferma.

In che contesto arriva il TdoV di quest’anno?

In un momento molto difficile in cui la negazione delle nostre istanze è diventata istituzionale. Percepiamo ostilità in tutti gli ambiti sociali, ma soprattutto nella dimensione politica dove viene rivendicata una cultura sessista e binaria che richiama solo il dato biologico. Sotto attacco sono soprattutto le persone di minore età, quelle che nelle scuole hanno bisogno della carriera alias per utilizzare il nome che corrispondente alla loro identità, oppure quelle che richiedono i farmaci bloccanti della pubertà.
Su questo tema da alcuni mesi si è sollevato un polverone. Il governo sembra intenzionato a ostacolare la somministrazione della triptorelina, farmaco usato per sospendere lo sviluppo puberale, agli adolescenti transgender. C’è una letteratura scientifica che mostra come queste siano terapie salvavita perché aiutano a tutelare l’identità delle persone. Il vero problema è negare a ragazzi e ragazze che evidenziano un disagio rispetto alla propria identità di genere la possibilità di essere se stessi, così facendo si rischia di incidere drammaticamente sulle loro vite. Negare l’identità, soprattutto in giovane età, significa togliere il diritto all’esistenza. È un fatto grave, di cui una certa politica si sta assumendo la responsabilità.

I critici di queste terapie dicono che così si sterilizzano i bambini. E che si è generato un «effetto contagio»: le persone transgender sarebbero in aumento per una sorta di meccanismo emulativo. Funziona così?

Assolutamente no. Per esempio lo dimostra la mia esperienza, oltre quella di tante altre persone. Ero stata condannata a essere un maschio alfa dall’ambiente di camorra in cui sono nata. E invece eccomi qui: sono Daniela. Sono me stessa nonostante da piccola avessi intorno un contesto maschilista, tossico, violento che ha provato in tutti i modi a condizionarmi a essere un uomo. Non ho mai cambiato la mia identità di genere o quello che sentivo di me. C’è poco da fare di fronte a ciò che una persona sente di se stessa. L’effetto contagio è una menzogna che condiziona la narrazione sulle persone trans e colpisce soprattutto quelle più fragili, ovvero i minori. Il rischio di negare le identità è andare incontro a fatti drammatici e irreversibili come il suicidio.

Non deve essere stato facile fare coming out in un ambiente di criminalità organizzata.

Per niente. Ha significato finire nella violenza assoluta, nella negazione totale. E quindi subire tantissimo dolore, tantissima sopraffazione.

È stato più difficile rinnegare la camorra o affermare il proprio genere?

È stato molto più facile consegnarmi a una socialità sana che consegnarmi alla vita come Daniela. L’approccio con la camorra è stato sempre chiaro da parte mia: ho espresso distanza da subito, perché sin da piccola capivo cosa fosse e come agisse violenza. Lo vedevo, lo percepivo visceralmente. L’interazione con altre persone mi ha dato la possibilità di sottrarmi a una vita che probabilmente avrei ereditato. L’interazione con ciò che è diverso è fondamentale, per questo anche oggi mi batto per promuoverla tra i più giovani. A me ha insegnato a distinguere tra cosa fosse sano e cosa malato. Presentarmi come Daniela, invece, è stato molto più complicato. Nel mondo è ancora estremamente difficile potersi affermare come una persona differente dal proprio dato biologico. La sottrazione alla camorra è stata un’esperienza che ho pianificato per molto tempo e a 18 anni ho messo in pratica, prima allontanandomi e poi denunciando pubblicamente la mia famiglia. Ma quello che ho subito come Daniela è stato più violento. In quarto superiore, dopo l’estate, sono tornata a scuola con del fondotinta sul volto. Così mi sono ulteriormente esposta al bullismo. A tantissimo bullismo. Ho subito outing. Quello è stato un momento di sofferenza ma anche di liberazione. Ha fatto comprendere ai bulli cosa mi avevano inferto. In quel momento la brutalità ha lasciato il passo alla bellezza, alla comunanza, allo stare insieme. È difficile per una persona trans poter vivere gli spazi come fanno tutti gli altri. Però c’è un momento in cui se quelli che hai intorno riescono a trasformare la forza negativa a cui sono stati abituati, poi diventano solidali. È l’attimo in cui ti aiutano ad agganciarti alla vita. È bene che ragazzi e ragazze siano consapevoli di questa possibilità.

Ha tenuto il cognome Falanga, che viene da suo padre condannato all’ergastolo ed è quello di un clan, e poi ha scelto due nomi: Daniela e Lourdes. Perché?

Il cognome è rimasto perché a 18 anni mia nonna non volle in alcun modo che lo cambiassi. I nomi invece vengono dal fatto che ero profondamente religiosa. Attraversavo un momento difficile e ho pensato di legare a Daniela, che vuol dire «Dio ti giudica», un altro nome di natura religiosa: Lourdes, che tutti sappiamo a cosa si riferisce. L’ho fatto perché mi identificavo molto nella religione cattolica, in Cristo, in Dio. Volevo che mi guidasse, mi fosse padre, mi abbracciasse, mi concepisse come persona. Poi la mia la mia vita si è strutturata diversamente e mi sono allontanata dal cristianesimo. Per alcuni avere fede vuol dire avere un’identità. Io ho smesso di credere quando ho capito chi fossi nel mondo. Così mi sono sottratta a un ordine escludente. Ma non delegittimo il potere della fede o chi sente la necessità di un’appartenenza spirituale.

Non è più credente ma ha conosciuto e attraversato la chiesa. Perché tanta ostilità al mondo Lgbtqia+ viene proprio da quegli ambienti?

La religione ha sempre creato una forma di potere che ambisce a definire un’organizzazione stabile. Noi siamo visti come quelli non allineati, che disgregano l’ordine, che rompono la consueta visione delle cose. Ma è sbagliato: noi in realtà alimentiamo la vita, l’umanità, siamo la stessa umanità, ne facciamo parte a pieno titolo.

Invece il suo impegno di attivista politica come inizia?

Inizia all’età di 26/27 anni quando accedo a Facebook e scopro che c’è un mondo di soggettività trans che reclamano la propria esistenza e il proprio diritto a vivere bene, allo stare bene in vita. Così le aggancio, in primis per garantire a me stessa di non essere più vista come un mostro e poi per aiutare e sostenere altre persone lgbtqia+. Avevo bisogno di affacciarmi al mondo e rendere chiara la nostra narrazione, contro una società che ci nega.

Nel consultorio Incontra dove lavora di cosa vi occupate?

Seguiamo persone che chiedono di fare un percorso di consapevolezza sulla propria identità di genere e le loro famiglie. Il nostro consultorio ha avuto il bollino blu dal ministero della Salute. Questo risponde anche a chi dice che al tavolo tecnico sui farmaci bloccanti le associazioni trans non servono perché non hanno competenze. I saperi scientifici sono sempre stati trasformati dalle battaglie politiche di chi reclama diritti, come è stato fatto attraverso le lotte femministe e come oggi fanno le nostre soggettività. Senza l’esperienza di chi vive una certa condizione non si possono trovare risposte.

Rispetto a quando ha iniziato il suo percorso di affermazione di genere come è cambiata la situazione?

Sicuramente ci sono più presidi a cui è possibile accedere, ci sono maggiori informazioni. Ma restano tanti problemi: per esempio a scuola con la carriera alias o a livello medico. Serve una riforma della medicina in ottica di genere, affinché i nostri corpi vengano presi in considerazione. I corpi non binari devono essere esaminati e curati in modo specifico, ma spesso questa possibilità non esiste.

A proposito di scuola, il suo profilo Instagram è pieno di foto davanti a centinaia di studenti. Di cosa parla in giro per gli istituti campani?

Mi occupo di ridurre i conflitti che nascono dalla mancanza di conoscenza delle differenze. Mi occupo di far comprendere quanto l’umanità sia varia. Cerco di consegnare a ragazze e ragazzi la possibilità di capire chi sono e chi hanno accanto. In queste situazioni si genera un’empatia straordinaria. Ricevo risposte meravigliose. Le e gli studenti mostrano tanto desiderio di conoscere.

Lei fa anche parte del direttivo nazionale di Arcigay. Perché Arcigay è aperto a tutte le rivendicazioni lgbtqia+, mentre Arcilesbica si oppone alle soggettività trans?

Arcigay ha sempre avuto una politica garantista per tutte le persone che appartengono alla comunità lgbtqia+, a favore della tutela delle loro libertà individuali. Arcilesbica è ormai una piccola comunità che rivendica una narrazione pre-femminista, escludente ed elitaria, basata esclusivamente sul dato biologico.

Una visione su cui convergono anche le destre. «Le trans non sono donne» è stato detto di recente in uno studio tv dal leghista Simone Pillon, proprio davanti a lei, e all’europarlamento dall’esponente di Alternative für Deutschland Christine Anderson.

Vogliono negare un’analisi che viene dalle lotte transfemministe e prima ancora dalle persone trans. È una forma di sopraffazione inferta a una popolazione che ha sempre vissuto una forte fragilità. Le loro sono posizioni basate su opinioni personali e codici antiscientifici che vorrebbero ridurre tutto al dato biologico, contraddicendo analisi intellettuali, politiche e relative allo sviluppo dei saperi medici. In questo modo si diffonde odio e diffidenza tra chi non ha gli strumenti per comprendere.

Il manifesto ha lanciato una manifestazione a Milano il 25 aprile per la pace e contro l’avanzata delle destre a livello europeo. Destre che proprio nel rifiuto dei diritti civili e delle persone lgbtqia+ hanno un cavallo di battaglia che usano nella corsa per le prossime elezioni Ue. Ha letto l’appello?

Sì. Credo davvero che bisogna essere presenti, fare comunità, per difendere insieme la democrazia. La Resistenza è proprio battersi per la libertà, sostenerla, chiarirla, per non essere spartiti e lesi della pluralità democratica.

Ci vedremo in piazza allora?

Spero di sì dai.

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