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Una campagna di libertà contro le armi improprie

Una campagna di libertà contro le armi improprieMaysoon Majidi

Maysoon Majidi È consapevole Majidi di come lei, Marjan Jamali e altre centinaia di persone detenute in Italia e in Europa rappresentino l’ideale capro espiatorio di una lotta dei governi contro le organizzazioni criminali responsabili del cosiddetto «reato di scafismo»

Pubblicato 3 giorni faEdizione del 25 ottobre 2024

Caro manifesto,
nell’importante intervista rilasciata a Silvio Messinetti e Claudio Dionesalvi pubblicata ieri su questo giornale, Maysoon Majidi prende parola. E lo fa, per la prima volta, da persona libera. Come sappiamo, la liberazione definitiva dipenderà da come andranno le cose il 27 novembre, data prevista per la sentenza di primo grado.
Tra i passaggi interessanti dell’intervista, c’è la risposta di Majidi alla domanda su cosa pensi della “caccia” allo scafista. «Non capisco il significato di questa parola. C’è una differenza enorme – dice – tra chi porta una barca per disperazione e chi traffica esseri umani».

È consapevole Majidi di come lei, Marjan Jamali e altre centinaia di persone detenute in Italia e in Europa rappresentino l’ideale capro espiatorio di una lotta dei governi contro le organizzazioni criminali responsabili del cosiddetto «reato di scafismo».

L’origine della parola «scafismo» spiega in parte la violenza con cui quel reato viene attribuito. Nell’antichità lo scafismo era una pratica di tortura, tra le più brutali che la storia abbia conosciuto. La tecnica consisteva nel rinchiudere la vittima in una sorta di bara stretta tra due imbarcazioni della stessa dimensione. Da cui emergevano solamente la testa, le due braccia e le due gambe, parzialmente sommerse ed esposte al sole. E ricoperte di latte e miele, così che diventasse cibo per gli insetti e gli uccelli.

Si tratta di una forma di pena di morte dell’antica Persia, come si evince dal racconto che ne fa Plutarco narrando il lungo supplizio cui venne sottoposto Mitridate.
Nella storia della tortura la crudeltà è stata sempre giustificata da un interesse superiore: la sicurezza dello Stato, l’ortodossia religiosa, la lotta al crimine. E anche oggi il cosiddetto «reato di scafismo», corrispondente nella fattispecie penale al «favoreggiamento dell’immigrazione irregolare», sembra essere utilizzato in maniera arbitraria per colpire chi viola i confini e chi entra in un paese diverso dal suo privo dei necessari documenti. In sintesi, equivale a un’arma politica e giuridica per difendere l’integrità dello Stato.

Eppure, a volte capita che le crepe di questa accusa infamante si allarghino talmente da far crollare la struttura sulla quale è costruita. Alla luce delle dichiarazioni fatte da alcuni testimoni durante l’udienza del 22 ottobre, sono venuti meno gli indizi di colpevolezza a carico di Majidi. In sostanza, l’attivista era sulla barca come lo erano le altre persone migranti. Quasi un anno di detenzione basato interamente su una suggestione, se non un’auto manipolazione da parte degli inquirenti.

In un altro passaggio dell’intervista Majidi dice: «Mi ha aiutato a resistere sapere che fuori c’erano ragazze e ragazzi della mia età (28 anni), ma anche persone più anziane, disposte a battersi per me. E sono stata felice di ricevere il loro abbraccio quando mi hanno liberata». È un punto fondamentale: ci ricorda quanto i piccoli gesti di migliaia di persone, l’attenzione pubblica e la sollecitudine nei confronti delle vittime possano essere il fattore decisivo di una efficace campagna di libertà; e, per converso, quanto tutto ciò ancora manchi nei confronti di coloro – come si è detto centinaia – che vivono la medesima condizione di Majidi e Jamali e, per la nostra impotenza o per la nostra pigrizia non trovano conforto e soccorso.

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