«Alcune persone mi hanno detto: rispetto ai tuoi libri, questo film non è abbastanza radicale. Ma io penso che bisogna riflettere attentamente su cosa significa radicalità. Non volevo fare un film “a tesi”, ma con i ragazzi e le ragazze, con le persone anziane, con chi ha vissuto l’esperienza trans. Non potevo chiedere loro di abbracciare il mio linguaggio, le mie conoscenze, ero io che dovevo avvicinarmi e da lì deriva la bellezza e la delicatezza del film». Così Paul B. Preciado, riferimento fondamentale nel pensiero trans e queer degli ultimi vent’anni, racconta Orlando, ma biographie politique, il suo esordio alla regia presentato alla Berlinale. Salutato già da diversi riconoscimenti – premio della giuria di Encounters, menzione speciale per il documentario, Teddy Award per miglior film non fiction – quello di Preciado è un lavoro che mescola senza forzature le parole e l’immaginario del celebre romanzo di Virginia Woolf, pilastro della cultura Lgbtq, con il vissuto di un gruppo di giovani e meno giovani persone trans, ognuna chiamata a interpretare, a modo suo, la figura dirompente di Orlando. Il calvario della psichiatria, le difficoltà per ottenere un documento d’identità, i desideri e i timori di chi si cerca al di fuori della griglia binaria prestabilita, sono alcuni degli snodi di questo film che, come ci assicura Preciado, non sarà l’ultimo.

In «Manifesto controsessuale» hai scritto che il cinema può essere inteso come una protesi dei sogni. È stato questo il caso di «Orlando»?
Sono stato circondato da immagini per molti anni, lavorando anche nel campo dell’architettura, il cinema è stato cruciale per me. L’ho sempre inteso come una tecnologia della creazione di soggettività e del sogno collettivo. Ma è molto diverso decodificare le immagini che esistono già rispetto al crearne di nuove. Il mio background è quello della filosofia, e tende a rendere molto critici visto che si diventa consapevoli di ciò che l’industria cinematografica rappresenta. Per questo mi sono chiesto: c’è veramente bisogno che io produca altre immagini? Non ero sicuro di volerlo fare all’inizio, ho sempre sentito che il mio medium fosse la scrittura percependone la libertà, data dal fatto che sono in pochi ad interessarsene. Infatti è cruciale che la filosofia non sia al centro del capitalismo. Scrivere è un’attività artigianale, il linguaggio è accessibile a tutti e ognuno è filosofo a suo modo, la differenza sta nel credito che si dà alle proprie domande, a quanto le prendiamo sul serio. Quindi, seppure in un ambito marginale – ma come allievo di Derrida, so che ciò che è al margine è in realtà proprio al centro – ero a mio agio nella scrittura. Finché è arrivata questa possibilità inaspettata: Arte mi ha comunicato di voler realizzare un film su di me, cosa che assolutamente non volevo. Allora non so come ma sono uscito dai loro uffici con un contratto che diceva che avrei realizzato un adattamento di Orlando.

Quali sono stati i tuoi riferimenti in questa avventura?
Diversi anni fa ero molto coinvolto in progetti politici collettivi e underground, di cui alcuni comprendevano anche l’uso delle immagini come nel post-porno. Poi ho iniziato a lavorare con le istituzioni culturali, e sentivo allora il bisogno di tornare a fare qualcosa di collettivo senza alcuna ingerenza esterna. Con le mostre ho avuto esperienze pesanti di censura: mentre nei libri posso scrivere ciò che voglio, in un’esposizione finisce sempre per esserci un problema o qualcuno che suggerisce di nascondere un’immagine dietro a una tenda. Quando Arte mi ha garantito che mi avrebbero lasciato carta bianca, allora ho accettato. Mi ha impegnato completamente per tre anni, durante i quali ho guardato molto a filosofi e pensatori che hanno realizzato film. Riferendomi unicamente alla tradizione di sinistra, ho individuato all’incirca tre strade: una era quella di Debord, molto maschile, con la pretesa di aver capito meglio e di spiegarlo agli altri, sapevo per certo che non era la mia; poi c’era quella di Godard, per me fondamentale, soprattutto per ciò che ha fatto nelle Histoire(s) du cinéma, a cui mi sono ispirato per come utilizza il voice over. La terza, in cui mi riconosco, è quella di Pasolini, che quando dagli scritti è passato al cinema ci si è dedicato totalmente, concentrandosi sui corpi e la loro sensualità. Mi sono però scontrato con tante problematiche: sarebbe stato ridicolo vestire o far parlare i protagonisti del film come nel libro di Woolf, ambientato nei secoli XVII, XVIII, XIX, oltre al fatto che non avevamo abbastanza soldi. C’è un piccolo testo di Pasolini, il Manifesto per un nuovo teatro, in cui dice: ciò che è possibile in scena è esattamente ciò che non è possibile. Mi ha incoraggiato a intraprendere altre strade.

Nel film ogni personaggio si presenta enunciando il proprio nome e il ruolo che svolgerà. Un modo per non farsi trascinare dalla finzione?
È come se fosse un piccolo rituale magico, considerato che molti dei protagonisti non sono attori, era un modo per farli entrare nella figura di Orlando. Abbiamo provato molto insieme anche solo per capire il testo di Woolf, piuttosto complesso nel suo stile letterario e poetico. Il momento più bello è stato quando ci si è dimenticati del testo, che è tornato sotto altre forme. Inoltre, per noi persone trans il nome e l’autoenunciazione sono questioni importanti, volevo quindi che riconoscerci collettivamente in Orlando costruisse qualcosa, e lo ha fatto. È nata una comunità.

Una comunità che, nella tua visione, comprende anche Virginia Woolf.
Ho letto tanto su di lei e secondo me Virginia oggi si sarebbe definita non binary. Finalmente si parla degli abusi che ha subito, del matrimonio senza sesso, dell’attrazione per le donne. Aveva tanti problemi con la femminilità, soffriva di non riconoscersi completamente in quell’immagine. È un po’ come con Proust e il fatto che a un certo punto si è dovuto accettare che l’autore della Recherche fosse gay. Ma quando dico che Virginia è una di noi mi riferisco soprattutto alla sua esperienza con l’istituzione psichiatrica, dove è stata ricoverata una ventina di volte. Per le persone trans è ancora un percorso obbligato molto pesante e lo sarà finché la narrativa binaria continuerà a essere imperante.

Il tema della poesia è centrale nel lavoro, nella trasfigurazione del senso e delle parole è racchiuso l’elemento sovversivo affine al vissuto trans?
La poesia è la cosa più sovversiva che esista, la possibilità che le cose siano diverse da come sono è la chiave della trasformazione politica. L’ho imparato da persone come Angela Davis e le altre maestre nere femministe: durante la schiavitù non si pensava che si potesse vivere in altro modo. Oggi è impossibile pensare ad un mondo non capitalista e non binary. Io da sempre, da quando sono bambino, vedo le cose diversamente rispetto alla maggioranza delle persone, non so perché ma il mio cervello funziona così. Oggi ho cinquant’anni e sono molto a contatto con i bambini trans, che sono fantastici, e parlando con loro mi rendo conto che sentiamo allo stesso modo, un tempo sarebbe stato scandaloso. Pensate a quale grado di apertura, di coraggio, di forza poetica devono avere dei bambini per dire ai genitori: non voglio mettermi i vestiti che mi dai, non voglio essere chiamato così. Tutto questo è impossibile da comprendere con il linguaggio medico, è qualcosa di molto politico che però non ha niente a che vedere con l’attività politica tradizionalmente intesa. Questi bambini mi fanno domande come: ma tu hai un pene? E io allora spiego loro, «non esattamente». Oppure gli adolescenti trans che si chiedono se conservare o meno le proprie ovaie. Sono discorsi filosofici, sono altri modi per parlare dei corpi. Quando ho iniziato il mio percorso trans non si aveva quasi scelta: bisognava sottoporsi alla chirurgia e approdare all’altro sesso, ma molti di noi non si sentono così e finalmente se ne può parlare.