Palestinesi in fuga da Khan Younis, nel sud di Gaza
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La battaglia nelle università italiane per parlare di Palestina

Palestinesi in fuga da Khan Younis, nel sud di Gaza

Israele/Palestina Lo studio della storia e del diritto assumono, evidentemente, natura eversiva, e sono quindi da delegittimare, poiché contrastano la narrazione ufficiale israeliana che fa iniziare tutto il 7 ottobre e che vorrebbe far dimenticare che esistono norme e istituti riconosciuti internazionalmente

Pubblicato 7 mesi faEdizione del 27 marzo 2024

Tra le vittime dei bombardamenti quasi incessanti che dal 7 ottobre colpiscono Gaza c’è il sistema di istruzione palestinese: scuole, università, biblioteche e laboratori sono stati sistematicamente distrutti, e migliaia sono gli insegnanti, accademici e studenti che sono stati uccisi. Anche in Cisgiordania sono aumentati negli ultimi mesi gli attacchi ai campus universitari e gli arresti di studenti e docenti. Ad oggi, nessuna istituzione accademica israeliana ha condannato quanto sta avvenendo. I singoli docenti che hanno espresso solidarietà verso le vittime o criticato le operazioni militari sono anzi stati sospesi o licenziati, e sono diventati oggetto di una campagna mediatica di stigmatizzazione.

Anche in Europa si assiste a una preoccupante restrizione degli spazi di discussione, sui media come nelle università. Recentemente, tanto per fare un esempio, l’università di Vienna ha cancellato un intero corso sulla storia palestinese che secondo i detrattori sarebbe stato un veicolo di propaganda anti-israeliana e di anti-semitismo. In Italia le cose non vanno molto meglio: gli oltre 4.000 docenti italiani che hanno firmato una petizione per il cessate il fuoco sono stati accusati di complicità con Hamas e di antisemitismo; studenti che manifestavano in piazza, a Pisa come a Firenze, sono stati manganellati; seminari e convegni volti ad approfondire le cause del conflitto sono stati cancellati per pressioni esterne.

Un recente esempio delle pressioni che sempre più spesso limitano la libertà accademica nel nostro Paese è fornito da un convegno che si è tenuto a inizio marzo all’Università degli studi di Milano dal titolo “Una terra senza pace: la questione israelo-palestinese”. Il programma prevedeva una prima parte di approfondimento storico, a partire dalla fine dell’Ottocento fino ai negoziati di Oslo, seguita da una sessione sul quadro politico palestinese e su quello israeliano. Il pomeriggio era dedicato a indagare la posizione del diritto internazionale e la sua applicazione da parte della Corte Internazionale di Giustizia e della Corte Penale internazionale, il contesto regionale e internazionale e, infine, la rappresentazione mediatica del conflitto. Appena è circolata la locandina vi sono state forti pressioni sull’Ateneo affinché l’evento fosse cancellato o si rivedesse il programma, e sono state esercitate pressioni su alcuni relatori più giovani accademicamente, e quindi più vulnerabili, affinché si ritirassero. Con qualche defezione l’evento si è comunque tenuto, e ha visto la partecipazione di centinaia di studenti in sala e in streaming, a dimostrazione dell’interesse che incontri di questo tipo riscuotono. Mentre si svolgeva il convegno alcuni contestatori, fuori dalla facoltà, accusavano gli organizzatori del convegno e i relatori di essere complici di Hamas. Anzi, come recitavano i loro cartelli, di essere Hamas (“Hamas in cattedra”, “Sinwar alla Statale”). Accuse odiose, che sempre più spesso vengono mosse contro chi non è perfettamente allineato con la narrazione ufficiale israeliana. In realtà, in cattedra, c’erano quasi esclusivamente studiosi provenienti da diverse università italiane e che da tempo si occupano, con una pluralità di prospettive e posizioni, di Medio Oriente.

I media mainstream, purtroppo, non di rado si prestano a sostenere questi tentativi di silenziare ogni dibattito. I giornalisti che hanno coperto il convegno di Milano hanno dato grande spazio ai cartelli e alle accuse dei contestatori, facendo scorrere immagini di manifestazioni imponenti pro-Palestina tratte dal loro repertorio e che nulla avevano a che vedere con la giornata di studio. Con la conseguenza di instillare nell’opinione pubblica l’idea – peraltro sostenuta da chi avrebbe voluto cancellare l’evento – che incontri accademici volti a comprendere l’attualità siano, in realtà, eventi “di parte”. Lo studio della storia e del diritto assumono, evidentemente, natura eversiva, e sono quindi da delegittimare, poiché contrastano la narrazione ufficiale israeliana che fa iniziare tutto il 7 ottobre e che vorrebbe far dimenticare che esistono norme e istituti riconosciuti internazionalmente.

Nessuno in questa occasione – e in altre simili – ha ricordato che “la democrazia si impara sui banchi di scuola e all’università. Non far parlare qualcuno su posizioni differenti dalle proprie è un atteggiamento fascista”. Sono le parole usate dalla segretaria generale della Federazione nazionale della Stampa italiana in seguito alla contestazione del direttore di Repubblica da parte di alcuni studenti della Federico II di Napoli. Parole sacrosante, quelle di Alessandra Costante, che dovrebbero però valere per ogni forma di pressione, minaccia e ingerenza che sia volta a limitare la libertà di espressione e di riunione.

Non cessa intanto di suscitare polemiche la decisione del Senato accademico dell’Università di Torino di non presentare proposte al bando per la raccolta di progetti congiunti di ricerca per l’anno 2024, sulla base dell’Accordo di Cooperazione Industriale, Scientifica e Tecnologica tra Italia e Israele.

A differenza di quanto si potrebbe evincere da una campagna mediatica e politica dai contorni strumentali, non si tratta di un’interruzione delle relazioni esistenti tra l’ateneo torinese e le università israeliane, ma della scelta di non partecipare a uno specifico bando, pubblicato dal ministero degli Affari esteri e della cooperazione internazionale, che riguarda determinati settori di ricerca (tecnologie per il suolo e l’acqua, ottica di precisione, elettronica e tecnologie quantistiche). Come sottolineato in un appello sottoscritto da circa duemila docenti italiani, “il finanziamento potrebbe essere utilizzato per sviluppare tecnologia dual use, ovvero a impiego sia civile che militare”, e “la terza linea di finanziamento delle tecnologie ottiche potrebbe essere utilizzata per sviluppare devices di sorveglianza di ultima generazione, anche a uso bellico”, proprio nei giorni in cui inchieste recenti hanno dimostrato l’esportazione e l’uso di armi italiane da parte dell’esercito israeliano contro i civili che vivono a Gaza.

In merito all’approvazione – con un solo voto contrario – da parte del Senato accademico torinese, è intervenuta la prima ministra Giorgia Meloni, che ha definito “preoccupante” l’iniziativa assunta dall’università, collegandola alla “grave ondata di antisemitismo dilagante anche nella nostra opinione pubblica, soprattutto quando coinvolge le istituzioni”. A essere preoccupante è semmai l’uso strumentale dell’accusa di anti-semitismo. Come afferma Maria Chiara Rioli, coordinatrice del Comitato per la libertà accademica della Società italiana di studi sul Medio Oriente (SeSaMO), “le frasi della premier, che associano una mozione orientata da ragioni umanitarie e dal rispetto del diritto internazionale ad atti di antisemitismo, rappresentano l’ennesima violazione della libertà di ricerca nel nostro paese”, nel contesto di una più ampia campagna di delegittimazione delle posizioni di coloro che contestano le scelte politiche del governo e dei suoi alleati in Medio Oriente.


*docente di Storia e istituzioni dell’Asia all’Università degli studi di Milano

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