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Zitti tutti, in Israele le università mettono il bavaglio al dissenso

Studenti nel campus della Tel Aviv University - Ap/Tsafrir Abayov Nuovo! Chiara Cruciati, INVIATA A JAFFAStudenti nel campus della Tel Aviv University – Ap/Tsafrir Abayov

Caccia alle streghe Centinaia di docenti e studenti sospesi, minacce e denunce che dai campus arrivano alla polizia. Un nuovo maccartismo, dall’alto e dal basso: i gruppi studenteschi denunciano prof e colleghi. Nel mirino palestinesi ed ebrei liberal e di sinistra. E aumentano le fughe all’estero, in cerca di libertà

Pubblicato 9 mesi faEdizione del 13 febbraio 2024
Chiara CruciatiINVIATA A JAFFA

Il campanello d’allarme suonava già ma lo hanno sentito in pochi. Era la primavera 2021, il movimento a difesa del quartiere palestinese di Sheikh Jarrah si era allargato a macchia d’olio, da Gerusalemme est aveva infiammato la Cisgiordania e – dopo anni di silenzio – le strade delle città israeliane.

I palestinesi del ‘48 si sollevarono, l’estremismo israeliano rispose: coloni e gruppi di destra giunsero armati, gli scontri accesero le notti di Led, Ramle, Tel Aviv, Haifa. «In quel momento abbiamo capito che qualcosa stava cambiando dentro Israele».

Matan Kaminer è antropologo e uno dei volti dell’Academia for Equality, associazione nata un decennio fa. Conta circa 850 membri, impegnati nella lotta per la democratizzazione e contro le discriminazioni dentro le istituzioni accademiche israeliane.

«NEL 2021 assistemmo a una prima grande repressione dentro i campus universitari. Ora siamo in modalità “crisi”. Nei primi due mesi dopo il 7 ottobre è stata una caduta libera: i palestinesi non potevano aprire bocca, dire nulla. La novità? Abbiamo scoperto che anche gli ebrei di sinistra non potevano aprire bocca».

Docenti e studenti sospesi, minacce, denunce che dai campus planavano sulle scrivanie della polizia, aggressioni come a fine ottobre, con centinaia di estremisti israeliani che hanno tentato di dare alle fiamme il dormitorio degli studenti palestinesi a Netanya. Tutto per un post su Facebook o Instagram o dichiarazioni pubbliche che «dicevano no alla guerra o facevano notare che a Gaza ci sono dei civili».

Il percorso è stato identico per le centinaia di studenti e docenti “attenzionati”: denunce mosse dall’Israeli Students Union e altre organizzazioni studentesche di destra, spiega il centro legale Adalah, e dirette ai vertici universitari che, sulla base di una politica «tolleranza zero», avviano procedimenti disciplinari e si rivolgono alla polizia.

Gli ordini sono stati impartiti dal ministro dell’educazione, Yoav Kisch; da parte loro le commissioni disciplinari procedono calpestando gli statuti interni, affibbiandosi un’autorità che non hanno. Nessun provvedimento per casi opposti, incitamento e violenze contro palestinesi e israeliani di sinistra.

NEI PRIMI due mesi 113 studenti palestinesi sono stati sospesi, il 79% donne e il 21% uomini. Nel 47% dei casi, continua Adalah, la sospensione è stata immediata, senza processo interno. In otto casi sono stati espulsi. A oggi gli studenti finiti di fronte ai comitati disciplinari sono circa 160 in 34 diverse istituzioni accademiche.

Sawsan Zaher è la legal advisor dell’Emergency Coalition, nata a fine 2022 con l’entrata in carica del nuovo governo di ultradestra. Previdenti. Zaher rappresenta alcuni studenti sospesi per post sulle piattaforme. «Subito dopo il 7 ottobre, alcune pagine Facebook hanno iniziato a seguire gli account di studenti, normali cittadini, attivisti, influencer palestinesi. Scattavano screenshot dei post e li inviavano ai posti di lavoro e le università».

È quello che è accaduto a uno dei suoi clienti: aveva appena concluso la facoltà di legge, ed è arrivato il 7 ottobre. La stessa mattina ha pubblicato sui social una delle foto virali in quelle ore, un carro armato israeliano dentro Gaza, circondato di persone.

Il giorno dopo ha scoperto che quel post veniva condiviso nei gruppi WhatsApp degli studenti del suo corso, con didascalie poco rassicuranti: terrorista, ti ammazziamo, uccidetelo.

«Pochi giorni dopo – continua Zaher – è stato sospeso. Aveva già terminato gli studi, ma non volevano consegnargli il diploma». Ora si è iscritto alla specialistica alla Haifa University, ma non è cambiato nulla: le minacce dei nuovi colleghi per quel post lo terrorizzano, non si è ancora presentato in classe. «Non solo: l’università di Haifa si è rivolta alla polizia. Lo hanno arrestato per dodici giorni con l’accusa di incitamento. Ora è a piede libero, ma l’indagine prosegue».

STORIA SIMILE per un’altra studente: è stata arrestata alle 3 di notte, a metà novembre, portata via in pigiama. In carcere è rimasta una settimana. «È stata liberata nello scambio tra ostaggi israeliani e prigionieri palestinesi, durante la tregua di fine novembre – continua Zaher – Le autorità israeliane non ci hanno consultato. Metterla in quella lista significa averla bollata per sempre. L’obiettivo di Israele è politico: far passare l’idea che tutti i palestinesi sono Hamas, che anche la tua compagna di banco lo è. Oltre il danno, la beffa: è stata rilasciata con lo scambio, ma l’inchiesta va avanti, può essere ancora condannata per incitamento». Intanto il suo college l’ha messa alla porta: non vogliono avere a che fare con una «terrorista».

E poi ci sono i docenti, in sei casi sospesi come l’israeliano Uri Horesh e la palestinese Warda Sada e tanti pubblicamente condannati (con richiesta ufficiosa di dimissioni), tra loro nomi noti come l’israeliana Nurit Peled e la palestinese Nader Shalhoub-Kevorkian, «colpevoli» di aver aderito ad appelli per il cessate il fuoco.

«Per la prima volta anche gli ebrei israeliani hanno avuto paura a esprimersi – continua Kaminer – I primi due mesi sono stati molto duri. I campus erano vuoti, le lezioni sospese. Questo, unito ai divieti a scendere in piazza, ha spinto molti a tacere. Con la riapertura dei campus a gennaio, la repressione si è “istituzionalizzata”. Ma è solo apparenza: a preoccupare è il maccartismo che aleggia nelle università. Sono gli studenti e i movimenti studenteschi di destra a denunciare compagni e professori».

Kaminer racconta di docenti e presidi israeliani presi di mira per le loro posizioni politiche: le minacce degli studenti li hanno costretti a un passo indietro. Come si fa a lavorare così?

«LA PRESSIONE è duplice, dall’alto e dal basso – continua Kaminer – Nel caso dei palestinesi è efficace: molti hanno smesso di venire a lezione, c’è un calo significativo della loro presenza. L’università era il solo vero luogo di incontro e dibattito in Israele tra ebrei e palestinesi, per il resto viviamo separati. Nei campus esisteva uno spazio pubblico condiviso, per questo la destra lo vuole distruggere, lo dice apertamente».

E tanti emigrano, forzatamente. Il fenomeno è in crescita, il post-7 ottobre lo ha solo amplificato: gli intellettuali israeliani vanno fuori in cerca di maggiore libertà. Kaminer sarebbe voluto restare ma ha lasciato la Hebrew University per la Queen Mary di Londra: «Nessuno ti dirà mai che è difficile trovare un posto per le tue opinioni politiche. Ma nelle università lo spazio per le voci di sinistra, o anche solo liberal, è ridotto».

Se ne andrà all’estero anche A. C. Professore di scienze politiche, palestinese, era rientrato dopo anni all’estero. Qualche settimana dopo è iniziata la guerra. Niente lavoro. «L’università non è un luogo neutrale – ci dice – Danno la caccia a ricercatori che sono nelle istituzioni israeliane da anni. Mi ritenevo un privilegiato, dopo anni a insegnare in Europa. E invece non ho opportunità di fronte».

«Prima la discriminazione era invisibile. Pensate al mancato riconoscimento delle università palestinesi dei Territori occupati. Chi si laurea alla Al Quds, alla Birzeit o alla An-Najah di Nablus non è riconosciuto dalle istituzioni israeliane. Può lavorare ovunque nel mondo, ma non in Israele. La Al-Quds di Gerusalemme est ha avviato l’ultimo procedimento di registrazione quindici anni fa, ancora non ha avuto risposta. Eppure è riconosciuta a livello globale. Israele non vuole istituzioni culturali palestinesi a Gerusalemme est e spera di spingere i palestinesi a studiare in Cisgiordania e poi restarci, per lavorare».

QUI, nelle università dei Territori, non va meglio. Il problema è un altro: soldi e libertà di movimento. «Lezioni da remoto, docenti con stipendi dimezzati – continua A. C. – e studenti che hanno sospeso l’iscrizione perché i genitori senza lavoro non hanno denaro per pagare le rette».

Obay studia alla Al Quds. Ogni giorno deve attraversare un checkpoint per arrivare al campus. Con le chiusure imposte dal 7 ottobre un viaggio già difficile è diventato surreale. «Nel mio piano studi c’è anche il corso di storia dell’arte di Gerusalemme. Dovremmo fare tour della città. Li stiamo facendo da remoto, fingiamo di girare per la Città Vecchia».

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