Se basta contestare Maurizio Molinari (contestare, non impedirgli di parlare), un uomo di potere, direttore di una delle principali testate giornalistiche di questo paese e certamente non una voce censurata o inascoltata nel dibattito pubblico, per far parlare di emergenza intolleranza e rischio terrorismo negli atenei italiani, è chiaro che si prospettano tempi bui per le libertà di parola e di espressione.

In realtà, per chi lavora in università, non si tratta di uno sviluppo inaspettato: dall’ottobre del 2023, infatti, gli spazi per il libero dibattito sui temi relativi alla Palestina e a Israele si sono radicalmente ridotti. Sono mesi che assistiamo a continui attacchi contro chi chiede il cessate il fuoco immediato e permanente e critica le politiche israeliane, difendendo il diritto umanitario internazionale, i diritti umani e le convenzioni contro genocidio e crimini di guerra.

COME RIPORTATO da numerose testate e organizzazioni professionali, nel mondo i casi di violazione della libertà accademica, di silenziamento e di criminalizzazione di colleghi e studenti sono innumerevoli. In Israele il caso più noto e recente è quello della collega Nadera Shalhoub-Kevorkian, recentemente rimossa dall’insegnamento all’Università Ebraica di Gerusalemme, per aver espresso dure critiche contro l’attacco in corso. Nella lettera che accompagnava la misura, il rettore specificava che la sua è una «università sionista» in cui docenti non-sionisti o antisionisti non hanno diritto di cittadinanza.

A questo, si aggiungono altri casi, come quello della collega Nurit Peled-Elhanan, sospesa, e di Uri Goresh, licenziato, che sono soltanto i nomi più noti tra i moltissimi che hanno subito attacchi nelle università israeliane perché hanno espresso posizioni a favore di un cessate il fuoco e in solidarietà con la popolazione palestinese.

In Europa e negli Stati uniti le cose non vanno meglio. Dal Max Planck Institute for Social Anthropology in Germania che licenzia il noto professore Ghassan Hage, al licenziamento della rettrice di Harvard e ai colleghi svizzeri mobilitati in difesa della libertà accademica, sembra che in quelli che da sempre sono presentati come bastioni della difesa dei diritti liberali di espressione e di libertà di opinione, in realtà, vigano la censura e il silenziamento coatto.

BASTI PENSARE che la statunitense Middle East Studies Association (Mesa), la più grande società di studi mediorientali del mondo, ha denunciato più di 34 casi di violazione della libertà accademica dall’ottobre 2023, casi che includono licenziamenti, sospensioni e diffamazioni a danno dei colleghi negli Stati uniti. La British Society for Middle East Studies (Brismes), la più grande associazione professionale di mediorientalisti in Europa, ne ha denunciati più di venti, senza contare che quest’ultima ha messo a punto diversi toolkit per l’auto-difesa legale nel caso di diffamazione o violazioni della libertà di parola.

Nonostante la retorica allarmista e bellicista, in Italia non abbiamo ancora visto il prodursi di casi eclatanti di licenziamenti o sospensioni. Assistiamo tuttavia a forme meno evidenti, ma non per questo meno efficaci, di censura. Ad esempio, nel caso di alcuni colleghi con insegnamenti su Israele/Palestina, sappiamo che è stato chiesto loro di cambiare i testi o gli argomenti del corso, qualora questi fossero ritenuti controversi – e, quasi sempre, ritenuti tali da persone senza alcuna expertise specifica su quei temi.

Abbiamo notizia di colleghi a cui è stato impedito, nel contesto di seminari dipartimentali, di tenere un minuto di silenzio in ricordo delle vittime civili palestinesi e di leggere una poesia palestinese, perché entrambe le cose sono state ritenute controverse. Abbiamo anche notizia di un accresciuto e più libero interventismo delle forze dell’ordine nei campus universitari e una forte tendenza a negare aule e spazi universitari per dibattiti che, dalle autorità degli atenei, sono visti come sconvenienti o addirittura pericolosi. Spesso, attori esterni alle università e stampa di destra esercitano pressione affinché alcuni convegni e dibattiti non abbiano luogo.

È successo nel caso del convegno organizzato all’Università Statale di Milano sul contesto storico e geopolitico mediorientale e la questione israelo-palestinese, finito nelle mire dell’associazionismo milanese pro-Israele e accusato di faziosità. Accuse infondate, hanno spiegato gli organizzatori, visto il suo carattere scientifico e la credibilità degli invitati. Un trattamento speciale è poi riservato a chi chiede la sospensione degli accordi di collaborazione scientifica con Israele.

Già a novembre, circa cinquemila accademici avevano firmato una petizione per chiedere il cessate il fuoco, l’intervento della comunità internazionale e la sospensione della cooperazione scientifica con gli atenei israeliani. Prontamente definiti «folli», «anti-ebraici», «colleghi docenti e ricercatori universitari che firmano un appello a sostegno delle tesi di Hamas» anche su testate considerate credibili e rispettabili, ad alcuni dei cinquemila è stata anche riservata un’attenzione specifica, con operazioni di character killing.

IN REALTÀ, come spiegato una lettera aperta a Tajani in occasione della pubblicazione del bando del Maeci nell’ambito dell’accordo di cooperazione industriale, scientifica e tecnologica tra Italia e Israele a febbraio, le richieste di sospensione delle collaborazioni servono anche per evitare che ricerca e know how vengano impiegati nell’industria bellica e per violare il diritto internazionale, potenzialmente configurando anche delle responsabilità penali – paura che è ancora più concreta vista la mancata sospensione da parte dell’Italia del commercio di armi verso Tel Aviv. Resta da vedere quali saranno gli sviluppi futuri, ma nemmeno in Italia la difesa del pluralismo e della democraticità degli spazi universitari sembra essere una preoccupazione per il governo o per la «grande stampa liberale».

Associata in relazioni internazionali alla Dublin City University