Visioni

La «banalità del male» del provocatorio Olocausto patinato

La «banalità del male» del provocatorio Olocausto patinatoUna scena da «The Zone of Interest»

Cannes 76 In concorso il nuovo film di Jonathan Glazer, «The Zone of Interest». Il lager da fuori, la routine quotidiana dei nazisti, il rischio dell'autocompiacimento

Pubblicato più di un anno faEdizione del 20 maggio 2023

Il film era molto atteso, presente in tutte le playlist prima dell’inizio del Festival con i titoli da non perdere. Jonathan Glazer è un regista di cinema (e video musicali) molto quotato, da quell’Under the Skin, fantascienza glaciale, costruita con suggestioni da videoartista sulla figura della sua protagonista, Scarlett Johansson. Era dieci anni fa, ci sono stati altri film, fino a questo The Zone of Interest dal libro di Martin Amis – che già si sussurra potrebbe essere una Palma d’oro per il presidente della Giuria Ruben Östlund – un racconto di Auschwitz, dove è stato girato, e della vita famigliare di Rudolf Höss (Christian Friedel), comandante del campo di sterminio dal 1940 al 1944. Gelido e minimale nell’immagine, Glazer affida la portata di quelle atrocità quotidiane alla colonna sonora di Mica Levi – suoni violenti, secchi, grida, spari, gemiti, e un fumo che «sporca» la limpidezza del cielo – per costruire un «fuori campo» del lager che non vedremo mai all’interno, salvo i prigionieri che servono nella casa del comandante, e che appaiono come ombre veloci.

L’ORIZZONTE del film si ferma al muro di cinta di cui la moglie di Höss (Sandra Hüller, la protagonista di Vi presento Toni Erdmann) cerca di camuffare la presenza con siepi di fiori tutto attorno la casa. I fiori sono del resto una sua ossessione: ve ne sono ovunque, rigogliosi, sfacciati nei loro colori sgargianti in quel luogo di morte intorno al quale la natura sembra invece così bella, persino nella sua inquietudine, da far quasi dimenticare cosa sono le ceneri che scorrono nel fiume mentre il comandante, padre amorevole, porta in canoa i figlioletti.

La casa per la donna è il suo stato di avanzamento sociale, l’orgoglio di un benessere raggiunto, degli obiettivi di ragazza povera che odiava la famiglia (ebrea) dove la madre serviva gli intellettuali, chi non considerava la loro forza e ora può finalmente esibire volgarità e ignoranza indossando le pellicce delle prigioniere ebree uccise nei forni.
Il contrasto è chiaro: il paradiso famigliare stride con quanto intuiamo, anzi sappiamo accade oltre la visuale che ci è permessa, e ci snocciola davanti agli occhi la fierezza di quel fare, la convinzione profonda di agire per un bene supremo, che riguarda sé stessi, la rapacità di cui la donna (la Germania?) è espressione, una crudeltà meccanica del gesto di uccidere che possiede l’uomo al punto di renderlo prigioniero di visioni e calcoli nei quali immagina di gasare anche il mondo a cui appartiene.
Quella che mette in scena è insomma una «banalità del male» colta nella sua vita ordinaria – per questo ha utilizzato dieci macchine da presa comandate da remoto – come se fossimo in un reality show, una sorta di Grande Fratello tra i nazisti privilegiati, che parlano dello sterminio di milioni di persone come una routine indifferente, meno importante di altre priorità tipo apparecchiare la tavola o organizzare picnic avvolti da quella nube di morte, come se niente fosse.

UN ATTO celato a lungo, divenuto poi «memoria» museale che Glazer esibisce nelle sequenze finali, le uniche dentro al campo di concentramento oggi. Questa ricerca di uno «choc» formale con le immagini patinate, esasperate dai grandangolari di interni, il paesaggio che nella sua bellezza fa risuonare la fiaba gotica – il padre legge alle figlie Hansel e Gretel, il momento del forno – ha un che di brutale: un autocompiacimento che semplifica, appiattisce, e che oltre quella ossessiva ricerca di effetto e di eleganza non sembra curarsi di nulla, neppure del proprio soggetto, sprofondando nell’anestetizzata indifferenza di stile spacciata per una prospettiva inedita sull’Olocausto.

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