Nelle strade, nei ristoranti, nei corridoi degli alberghi e dentro il Palais si sente che questa è veramente la prima Cannes post pandemia. E, se l’Africa è il continente a cui forse si guarda con più eccitazione scorrendo i titoli in programma al festival, al mercato è visibilmente riapparsa in massa l’Asia, isolata dal Covid per le due edizioni precedenti.
Il giorno dell’apertura è (come al solito?) un mix di deja vu e di l’air du temp- come quella che sta intasando internet, tv e pagine dei giornali, a forza di proteste contro Johnny Depp. Da parte sua, la co-star del film d’apertura, Jeanne Du Barry, a dispetto degli «haters» e degli scarabocchi sulla sua faccia (e su quelle di Woody Allen e Depardieu) nelle gigantesche foto dal repertorio del red carpet che foderano le barriere di un cantiere stradale adiacente al Palais, la sua causa in tribunale l’ha vinta regolarmente; ha appena firmato un contratto da venti milioni di dollari per Dior (attendiamo picchetti davanti alla sede parigina della Maison) e si accinge a fare un film da regista, che Al Pacino avrebbe già accettato di interpretare.

PER GUARDARE con intelligente problematicità – aldilà degli hashtag, dei cliché e del semplice opportunismo mediatico- ai complicati fantasmi risvegliati, e furiosamente scatenati dal #MeToo, i due titoli che attendiamo con più eccitazione sono L’été dernier di Catherine Breillat, che torna a fare film dopo dieci anni, con la storia di una brillante avvocatessa (Lea Drucker) famosa per le sue difese di minorenni abusati e/on in difficoltà, la cui perfetta vita familiare viene turbata dall’ arrivo del figlio adolescente di un precedente matrimonio di suo marito; e May December, di Todd Haynes, in cui la ricerca per il prossimo progetto di una famosa attrice televisiva (Natalie Portman) è il veicolo per esplorare la «scandalosa» storia di una donna (Julianne Moore) che ha sedotto, e poi sposato, un suo studente minorenne. Sempre in odore di attualità, sembra in corto circuito con le pagine dei quotidiani newyorkesi in questi giorni, infuocate – con derive da The Bonfire of the Vanities di Tom Wolfe – dalla storia di Jordan Neely e Daniel Penny, l’ afroamericano malato di mente che ha dato in escandescenze su un vagone della metropolitana e il marine ventiquattrenne che lo ha strangolato ritenendo di dover proteggere sè stesso e gli altri passeggeri.

IL FILM AMERICANO del francese Jean -Stéphane Sauvaire, Black Flies, tratto dal romanzo di Shannon Burke, con Sean Penn e Ty Sheridan, racconta infatti la notte senza fine di due autisti di un’ambulanza dei pompieri di New York impegnati in una lotta (inutile) contro i corollari della poverta’, della marginalizzazione, del razzismo e della distruzione dello stato sociale che hanno segnato la fine di Neely. Per il filone Cannes è sempre Cannes, Thierry Fremaux, che ama i line up fatti di «grandi nomi», riporta al festival di quest’anno, oltre a Martin Scorsese con Killers of the Flower Moon, Aki Kaurismaki, con Kuolleet Lehdet, Victor Erice, con Cerrar Los Ojos (però solo in Cannes Premieres), Nury Bilge Ceylan (Kuru Otlar Ustume), Takeshi Kitano e gli immancabili Ken Loach e Wes Anderson. Tra i ritorni più attesi quello di Jonathan Glazer, con The Zone of Interest .