Visioni

Julio Bressane, dimenticarsi di sé e dell’autore nell’immagine «antropofagica»

Julio Bressane, dimenticarsi di sé e dell’autore nell’immagine «antropofagica»Julio Bressane in una scena del film «The Long Voyage of the Yellow Bus»

Julio Bressane Da martedì 11 a giovedì 13 aprile il regista brasiliano sarà a Bari per un convegno sul rapporto con Nietzsche. L’ultimo film «The Long Voyage of the Yellow Bus», il filosofo e lo sciamano

Pubblicato più di un anno faEdizione del 9 aprile 2023

Subito dopo Pasqua, da martedì 11 a giovedì 13, Julio Bressane sarà a Bari per un convegno internazionale intitolato «Passaggi e paesaggi tra Julio Bressane e Friedrich Nietzsche». Tra gli interventi accademici c’è anche quello di Rosa Dias, docente di filosofia dell’Università di Rio nonché moglie del cineasta carioca, di cui saranno proiettati quattro film: Matou a familia e foi a o cinema (Uccise la famiglia e andò al cinema, 1969), Dias de Nietzsche em Turin, (I giorni di Nietzsche a Torino, 2001), Seduçao da carne (2018) e Visione di Sils Maria Rochedo de Surley (2019).

IL RAPPORTO con il pensiero di Nietzsche segna il cinema di Bressane fin dall’inizio, è uno dei motivi per cui fu tenuto ai margini dal gruppo del Cinema Novo formatosi alla fine degli anni ’60 in Brasile, troppo dogmatico e ideologico per contenere la visione smisurata, sragionata, folle e anarchica di Julio (e del suo amico Rogerio Sganzerla con cui dà vita alla Belair, casa di produzione dalla vita breve ma dall’impatto fulminante). La furia lucida di Nietzsche, l’atto che distruggendo crea, attraversa i cinquant’anni di cinema di Bressane, tra incarnazioni, seduzioni, evocazioni, percorsi e ritorni fino alla sua ultima, imponente opera, A longa viagem do ônibus amarelo (The Long Voyage of the Yellow Bus, più di sette ore la durata),
presentato in anteprima a gennaio all’International Film Festival Rotterdam. Il film è fatto con i 58 titoli realizzati da Bressane dal 1959 di Tempo perdido, filmato giovanissimo durante un viaggio a New York con la 16mm regalatagli da sua madre, fino Capitu e o capitulo cortometraggio del 2021 ancora inedito. The Long Voyage of the Yellow Bus si innesta sulla filmografia del regista a cui si aggiungono i filmati familiari, ma non è una riflessione sulla propria opera né un’autobiografia in forma di cinema, è una creatura a sé, che di quella mole di immagini si nutre per farsi altro. «La ricerca del film è il cinema stesso» – così lo presenta Bressane – «quello che ho provato a vedere in questi 58 film è cosa resta del cinema. Oggi sembra scomparso, le persone cercano storie, emozioni ma si dimenticano che la prima cosa in un film è la luce, il film stesso. Quello che ho provato a fare è organizzare 27 figure del linguaggio del cinema per mostrare l’invisibile che è rimasto in queste immagini. Oltre all’inconscio pulsionale, c’è un inconscio ottico che si attiva durante la visione. Il cinema permette, attraverso l’inquadratura e il particolare, di tirare fuori quello che vede l’inconscio. Come in Mnemosyne di Aby Warburg non c’è nessuna spiegazione, il film non vuole dire nulla, ogni singolo spettatore può farsi il suo viaggio e trovare la propria strada dentro quelle immagini».

JULIO BRESSANE, gigante d’America, smonta le proprie opere, le fa a brandelli e le sbrana, le deturpa finanche fingendo di dimenticare l’aspect ratio, non prestando attenzione alcuna alla «qualità» delle immagini. Film girati in 35mm vengono usati in copie vhs o dvd, copie usurate sono state preferite a moderne digitalizzazioni: la questione non è la definizione delle immagini ma lasciar emergere attraverso i tagli la parte indescrivibile che nascondono. Non c’è un ritrovarsi ma un desiderio di perdersi, non un ricordare ma un dimenticare sé stessi e i propri affetti e desideri, andare oltre la memoria e i sentimenti, uccidere davvero la familiarità con quelle immagini e la famiglia e le opere e i giorni che raccontano per andare (dritto) al cinema. «È il film di un anonimo», dice il mostro caraibico Bressane.

Questo Lungo viaggio è un film che arriva da lontano, come racconta Rodrigo Lima, montatore e collaboratore di lungo corso che qui firma il film con Bressane: «Abbiamo cominciato a pensare a questo film nel 2006, mentre giravamo Cleopatra, poi man mano abbiamo cominciato a raccogliere i tanti film di Julio, all’inizio abbiamo caricato i vhs e i dvd di alcuni, poi, anni dopo, abbiamo caricato i file di altri, in seguito i film familiari di Julio e Rosa e solo poco tempo fa abbiamo avuto la possibilità di avere delle scannerizzazioni in alta qualità dei film e materiali che mancavano. Quando, allo scoppiare della pandemia, ci siamo ritrovati costretti in casa e con una situazione difficile nel nostro Paese, abbiamo cominciato a montare realmente queste circa 80 ore di filmati».

IL TITOLO riprende quello di un suo film non finito dei primi anni ’70, girato insieme a sua moglie Rosa e Andrea Tonacci (cineasta nato a Roma nel 1944 ma trasferitosi con la famiglia in Brasile all’età di 11 anni), con una Super8mm, in viaggio da Venezia a Katmandu. Di quei girati restano soltanto 25 minuti, con i colori vivi di un viaggio anni ’70 (il bus giallo evocato era un autobus che viaggiava tra Londra e l’India nel periodo hippy), attraversamenti di frontiere oggi invalicabili, terre devastate in seguito dalla guerra, ci sono anche i Buddha giganti che nel frattempo sono stati fatti saltare in aria, filmati come protagonisti di un horror mitologico. Non c’è nessuno spazio per la nostalgia, non c’è saudade, emerge flagrante un’umanità in cammino, il desiderio della scoperta, la gioia del gioco.

Oggi il cinema sembra scomparso, le persone cercano storie, emozioni ma si dimenticano che la prima cosa in un film è la luceJulio Bressane
The Long Voyage of the Yellow Bus è un «tornare dove non si è mai stati», una tensione che raggruppa diversi film (tutti straordinari) usciti nell’ultimo anno, dalle biografie più o meno svelate di Spielberg (The Fabelmans) e James Gray (Armageddon Time) agli Universi circoscritti 2 di Tonino De Bernardi, dal ritorno e superamento di sé e della propria opera di Cronenberg (Crimes of the Future), Sokurov (Fairytale) e Cameron (Avatar 2) fino all’arca naufragante di enrico ghezzi e Alessandro Gagliardo (Gli ultimi giorni dell’umanità, in uscita nelle sale a maggio) che forse è l’opera che sembra somigliare di più a quella di Bressane.
Ma andando più a fondo si scopre che questo film ha una forza diversa, ancestrale e antropofagica, che mira alla distruzione dell’io e quindi all’uccisione dell’autore. Siamo distanti anche dallo «Je est un autre» di Godard, dal suo sublime perdersi e ritrovarsi nelle Histoire(s), dal mancarsi dell’autoritratto quanto dal manifestarsi in luce fuori campo e fuori tempo del Kommunisten di Jean-Marie Straub. In Bressane lo scienziato/filosofo incontra lo sciamano, The Long Voyage ha la sapienza del «tractatus» che chiede ancora una volta «che cos’è il cinema?» ma anche una forza cieca che riesce a evocare e far danzare insieme Nietzsche e Antonioni, Dioniso e Aby Warburg, Hitchcock e Pessoa. Se proprio ci è impossibile accettare che arrivino cose da altri mondi che difficilmente sono spiegabili e etichettabili dalla nostra supponente «ragioneria» europea, bisogna guardare al Carmelo Bene di Nostra Signora dei Turchi o al Traité de bave et d’éternité di Isidore Isou, film che partono dal desiderio di distruggere tutto, a partire da sé. «Non sono un uomo, sono dinamite» per dirla con Nietzsche e Bressane segue questo pensiero alla lettera e si fa esplodere come Pierrot le fou.

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