Julio Antonio, eroi bronzi nudi, Rodin e l’hispanidad
Julio Antonio, modello del Monument als Herois de 1811, 1916, Tarragona, Museu d’art modern
Alias Domenica

Julio Antonio, eroi bronzi nudi, Rodin e l’hispanidad

A Tarragona, Museu d’art modern Figura di spicco della scultura spagnola di primo Novecento, «hidalgo» moderno, diede corpo stereometrico all’orgoglio nazionale
Pubblicato 2 giorni faEdizione del 3 novembre 2024
Tommaso Mozzati TARRAGONA

Il piccolo e prezioso Museu d’art modern de Tarragona è uno dei portati culturali della transizione postfranchista, una cioè fra le molte istituzioni offerte alla Spagna liberata per ricucire un più schietto dialogo con la contemporaneità, oppresso sin dagli anni della Guerra Civile dalla pervasiva politica culturale della dittatura.

Fondato nel 1976, il museo, nel tempo, avrebbe visto arricchire le proprie collezioni, tramite acquisti o prestiti importanti; e se la Biennale organizzata in città (come sviluppo del concorso municipale fondato nel ’44) ha garantito un bacino rilevante e continuativo di nuove acquisizioni, il cuore della raccolta è certo da riconoscersi in due arazzi eseguiti dai nomi più svettanti del Novecento catalano, Joan Miró e Antoni Tàpies, con una sintonia di tecniche e forme che impreziosisce il primo piano dell’edificio, in una sala dedicata di grande effetto.

Un altro nucleo forte è poi costituito dal lascito ingente, ottenuto nel 1968, e che ha legato all’istituzione un corpus ricchissimo di opere, bozzetti, disegni, oggetti, strumenti di lavoro provenienti dall’atelier di Julio Antonio, figura di spicco della scultura spagnola d’inizio secolo, educatosi a cavallo fra Tarragona e Madrid.
La donazione s’è, certo, motivata per l’origine dell’artista, nome di battesimo Antonio Rodríguez Hernández, nativo di Mora de Ebro, un municipio perso nella provincia catalana: istruitosi nell’arte presso il locale Ateneo, si sarebbe perfezionato fra Barcellona e la capitale, ottenendo una fama assai precoce, sostenuta dalle borse di studio della Diputación.

Tuttavia, anche la presenza sulla Rambla Nova – nella parte più moderna di un composito tessuto urbano – del Monumento agli Eroi del 1811 deve aver giustificato una tanto generosa eredità. Il gruppo bronzeo, infatti, oltre a essere il capolavoro più celebre di Julio Antonio, si offre come un caposaldo della statuaria iberica di primo Novecento, testimonianza assai tempestiva di quanto la società spagnola stesse orientandosi, pure in scultura, alle forme di una modernità francofona, venata nondimeno dal sapido discorso attorno al tema dell’hispanidad intrattenuto dalla Generación del ’98.

Mentre i tre personaggi, tutti composti in forma di nudi eroici, commemorano, secondo una rispettosa scadenza centenaria, l’opposizione alle truppe napoleoniche durante la campagna di conquista di primo Ottocento, le loro membra s’ispirano a un lessico rodiniano, già venato di spunti susseguenti, lo sguardo alle stereometrie di Antoine Bourdelle, perfezionate di lì a poco dal blocco compatto del Centauro morente. Nel far questo, Julio Antonio si allinea, con sventatezza giovanile e posizionamento coraggioso, a una koiné che andava diffondendosi in Europa, dalla Croazia alla Svezia, dall’Italia all’Inghilterra, passando per la produzione di Ivan Meštrovic o di Theodor Lundberg, di Giuseppe Romagnoli o di Leonard Jannings. Manifesta però, accanto a una corsiva meditazione su Michelangelo, aperture a fonti meno distanti, guardando, fra gli altri, all’espressionismo ante litteram di uno scultore cinquecentesco come Alonso Berruguete (che, nello stesso periodo, stava vivendo una favorevole stagione critica, riverberando nei linguaggi di altri maestri iberici, in primis Victorio Macho).

Proprio la genesi di questo monumento è ben descritta dai materiali esposti in museo, che consentono pure di ripercorrerne l’accoglienza contrastatissima, ai tempi della sua prima presentazione pubblica, assieme con la sfortuna toccatagli in sorte fino agli anni venti. L’allestimento, generato dall’evento espositivo Bronce desnudo tenutosi nel 2006, rimane una riflessione efficace sulle molte testimonianze relative alla sua messa in opera, in conversazione con gli altri pezzi, parte del legato: da bozzetto a bozzetto, se ne valuta il progressivo bilanciamento, tentato dapprincipio da un drammatico disequilibrio e risoltosi in ultimo nella griglia rigida di una bidimensionalità cristallina, utile a chiarirne la formula eulogistica.

Non a caso, a Tarragona, si possono anche apprezzare le capacità disegnative dello scultore, alla base dei virtuosi grafismi del monumento, sciolto in un rutilare di stoffe plissettate e definito da eminenti acconciature all’antica, fitte di ricci e scriminature. Gli studi dal naturale di giovinetti a riposo, carboncini o matite rosse, ne documentano la mano felice, grazie a un’indagine tutt’altro che accademica di corpi emaciati: del resto la stessa iconografia dell’artista, rifranta in una serie lunare di autoritratti, si adatta a una bohème per niente aulica, colorata da cappellacci di feltro, grossi fiocchi a pois, occhiaie scavate dalla luce e dall’ombra; qualcosa che ha a che fare con certa pittura umorosa del primo Picasso, sul tipo della Mujer en azul del Reina Sofia, ma che descrive specialmente un profilo di hidalgo moderno, tutto dandysmo e débauche.

In quest’ottica, non stonano neppure i pezzi costumbristi, come la Música española, María la gitana o la Mujer de la mantilla, in cui si stempera, impercepibile, il senso colossale di Rodin per lasciar spazio a una morbidissima sensiblerie fin-de-siècle, prossima semmai alle squisitezze marmoree del nostro Pietro Canonica.

È anzi proprio su questo piano che, dopo la prova del 1911, Julio Antonio torna a sfiorare una riuscita perfetta, in un’ennesima realizzazione ben attestata fra i materiali del lascito: il riferimento è al Monumento Lemonier, sepoltura concepita per commemorare la morte di un fanciullo decenne, nell’abbraccio eterno con la madre disperata.

Incrostato di pietre azzurre e nere, in un accesso cromatico che rimanda all’imaginería barocca, il sepolcro doveva in origine esser completato da mosaici e da una pesante doratura, a velare il letto di rose pensato come zoccolo. Il cadavere del figlio in bianco Carrara, la silhouette della donna fusa nel bronzo, l’opera poteva quindi ritrovare una strada autonoma per riallacciarsi a un’idea «presente» del fatto scultoreo, che in Spagna riverberava ancora nei pasos della semana santa, ricordando quanto le immagini, nella loro pelle colorata, richiamassero la vita, spartissero col mondo degli uomini l’illusione di un’esistenza condivisa.

Anche per questo, nel 1919, il gruppo, esposto al suo completamento nel salone della Sociedad de Amigos del Arte (negli spazi del madrileno Palacio de Bibliotecas y Museos), avrebbe incontrato uno straordinario successo di pubblico; un vero e proprio testamento per l’artista, destinato a morire prematuramente poche settimane dopo. Il mausoleo Lemonier, nel suo basamento, doveva mostrare i versi di Jorge Manrique: «nuestras vidas son los ríos que van a dar a la mar, que es el morir».

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