Antoni Tàpies s’è imposto, alla prova del tempo e della storia, fra le voci più significative per la pittura spagnola del secolo passato; un ruolo, quello di maestro riconosciuto, che già del resto pareva essergli attribuito negli anni della sua piena maturità, quando, ad esempio, all’interno di un’ampia disamina sui linguaggi dell’informale firmata nel 1964, Joan Teixidor – scrittore olotense cui si deve la nascita della casa editrice Destino – poteva sostenere in un numero speciale della rivista «Suma y sigue del arte contemporáneo»: «De Tàpies se ha escrito mucho, y con razón. Es posible que no exista en el mundo artístico de estos años una carrera más rápida, una forma de imponerse más absoluta. Su nombre se añade al de aquellos grandes artistas de nuestro país, llámense Gaudí, Picasso, Miró o Dalí, que han dejado una huella imborrable en el arte de nuestro tiempo».

Alla luce di un simile bilancio, tanto consolidato quanto condiviso, assume dunque un peso determinante che, nel centenario dalla nascita, il Reina Sofia scelga di dedicargli un’imponente retrospettiva, a cura di Manuel Borja-Villel, ex direttore dell’istituzione madrilena (ruolo assunto nel 2008), dimessosi l’anno passato per una dura campagna mezzo stampa condotta da voci di estrema destra, avverse alle politiche promosse dalla sua gestione del museo: si tratta infatti di un evento che risponde, dal cuore della Castiglia, al ricco programma culturale sostenuto, specialmente per questa ricorrenza, dalla Fundació Antoni Tàpies, con sede a Barcellona a pochi passi da Casa Battló, e che indica fino a che punto la sua figura di «catalano cosmopolita» sia favorita da un’aura canonica, da un’allure nazionale (e internazionale), trascendente i mai sopiti particolarismi di un panorama come quello spagnolo, contrastato e diviso tra spinte identitarie e rivendicazioni autonomiste.

L’eco dell’omaggio è del resto magnificata dal fatto che, sempre al Reina Sofia, si stia celebrando un altro gigante, e cioè Pablo Picasso, a cinquant’anni dalla morte, con un percorso nutritissimo di prestiti e confronti, consacrato alla svolta del 1906, quando il malagueño chiude il suo periodo rosa e inizia a meditare sulle maschere indigene delle Demoiselles d’Avignon.

Nonostante a separarli fosse un abisso anagrafico, i due poterono incontrarsi a Parigi nel 1950, dove Tàpies si era trasferito per qualche mese grazie a una borsa dell’Institut Français e dove il collega, più anziano (e celebre), viveva un esilio volontario sin dagli anni della Guerra Civile; complice una lettera di presentazione scritta da Jacint Reventós i Bordoy, il ragazzo – non ancora trentenne – lo aveva avvicinato, considerandolo per l’appunto «una especie de símbolo que en el aspecto político (…) explicaba lo que había pasado» durante il levantamiento franchista e lo stabilirsi della dittatura, «lo cual no estaba nada claro para los jóvenes, porque los vencedores lo tergiversaban todo».

Sembra aver tenuto a mente quest’incontro Borja-Villel, al momento di approntare la selezione di oltre duecentoventi opere da esporre nelle sale del Reina Sofia, «all’ombra» del capolavoro più noto e militante di Picasso, l’immensa Guernica, capace di magnetizzare ogni giorno folle di curiosi nelle sale dell’ex Hospital de San Carlos con l’intensità di un tragico quadro di storia contemporanea (raffigurante, è cosa nota, il bombardamento del pueblo basco, nell’aprile del 1937, da parte dell’aviazione italo-tedesca, accorsa in aiuto delle truppe falangiste nel colpo di stato contro la Repubblica).

l’artista catalano, autoritratto fotografico ca. 1945-’47

A differenza di quanto avvenuto nelle precedenti monografiche allestite dalla stessa istituzione (quella del 1990, sugli esperimenti in tre dimensioni del pittore, e l’altra, assai più corposa, concepita nel 2000 dallo stesso Borja-Villel come «monumento» alla sua prolifica attività), la mostra odierna mette infatti in risalto – al centro della parabola biografica seguita di sala in sala, dalle premesse surrealiste integrate nel gruppo del Dau al Set sino al monumentalismo delle creazioni estreme – un focus sull’engagement del linguaggio di Tàpies, presentando alcune prove impegnative degli anni sessanta e settanta, quando la prossimità a un certo tipo di dissidenza si era fatta più esplicita, tradotta in azioni concrete di critica al regime e lotta ai suoi metodi repressivi; pensiamo, ad esempio, alla presenza nell’encierro dell’abbazia di Montserrat, in risposta all’efferatezza giudiziaria del processo di Burgos.

Servono questo disegno risultati come 7 de novembre (1971), Caixa de la camisa roja (1972), A la memòria de Salvador Puig Antich (1974), provenienti da collezioni barcellonesi o straniere, mentre intona un controcanto al feroce centralismo franchista la tavola L’esperit català (1971), a tracciare sui muri di un’unica stanza i nuclei forti della polemica rivolta ai soprusi di una dittatura agli sgoccioli.

Tale decisione reagisce, d’altra parte, al volume, assai recente, Antoni Tàpies. Political Biography, prodotto nel 2020 dalla fondazione barcellonese, col quale si è deciso di fare il punto sul profilo dell’artista in rapporto al proprio tempo e alle relazioni con l’establishment istituzionale: così, problematizzando da un lato il precoce supporto garantitogli dalle compagini governative attraverso canali di rappresentanza fra cui la Biennale di Venezia o quella di San Paolo, il volume ha soprattutto inteso evidenziare attestazioni «resistenti» tanto nel suo catalogo, quanto in condotte consapevoli e deliberate, fra cui la celebre causa vinta a Londra, di fronte ad alcune scelte operate dal Ministerio de Asuntos Exteriores, per garantire a ciascun autore il diritto inappellabile a decidere sull’opportunità (o meno) di esporre i propri lavori.
È stato Tàpies, d’altronde, a ricordare in che modo la sua presa di coscienza politica, dopo le meditazioni solipsistiche degli esordi, fosse stata sollecitata nel vedere, alla fine degli anni cinquanta, alcune sue opere, inscatolate per venir spedite all’estero a una rassegna ufficiale, sotto l’etichetta di «materiale di propaganda», usata nei documenti da consegnare alla dogana; ed è ancora un altro celebre aneddoto, condiviso con Imma Julián in una conversazione del 1976, ad aver chiarito come attorno alla sua œuvre, alla sua presenza nel difficoltoso dibattito contemporaneo, si fosse generata una qualche ambiguità.
Secondo il racconto menzionato dal pittore, il Caudillo, fatto entrare nel 1952 in una delle sale «giovani» della prima Bienal hispanoamericana (fra gli eventi più sfarzosi voluti dal franchismo trionfante), sarebbe stato invitato a dare la propria opinione sulle correnti ultime dell’Informale: nel suo giudizio, rispondendo «mientras hagan la revolución así, ya está bien», il dittatore avrebbe dimostrato soltanto la propria ignoranza, incapace di comprendere quanto «la cultura (…) hace (…) una labor callada, que prepara las conciencias de forma generalmente más sólida que muchos actos violentos».

È anche per questo che il titolo dell’esposizione al Reina Sofia, La práctica del arte, rimanda a qualcosa d’altro, di diverso dal tema del semplice «mestiere», valorizzando a un tempo quella che già era servita da intestazione per una famosa raccolta di scritti in catalano pubblicata dal Tàpies nel 1970; raccolta che, non a caso, si apriva, col saggio Arte-Idea, avviando così la propria riflessione estetica: «l’opera, oltre alla carica emotiva che gli dà il pittore, deve essere strettamente collegata all’ideologia delle forze progressiste ad essa contemporanee».