J.M. Coetzee, spartito frigido per passioni ingrate
Scrittori sudafricani Una sgarbata signora fa innamorare di sé l’anziano interprete di Chopin invitato a suonare a Barcellona: «Il polacco», ultimo romanzo dello scrittore sudafricano, da Einaudi
Scrittori sudafricani Una sgarbata signora fa innamorare di sé l’anziano interprete di Chopin invitato a suonare a Barcellona: «Il polacco», ultimo romanzo dello scrittore sudafricano, da Einaudi
Insignificanza e squallore sentimentale devono essere due attributi difficili da afferrare con la scrittura, eppure sembra che esercitino su J.M. Coetzee una ostinata attrazione. Non si spiega altrimenti la sua scelta di mettere in scena, di tanto in tanto, personaggi respingenti nella loro ordinaria povertà di emozioni. Nessun genio del male, semplicemente figure abitate da una miseria sentimentale che li rende di sgradevole compagnia: Inès, la madre elettiva del piccolo David nella trilogia cominciata con L’infanzia di Gesù (un capolavoro) si presentava come una donna capricciosa e viziata, ma non abbastanza radicale, nella sua antipatia, da guadagnarsi la dignità di una maschera. E, ora, Beatriz, co-protagonista dell’ultimo romanzo di Coetzee, Il Polacco (traduzione di Maria Baiocchi, pp. 128, € 17,00) è una sgarbata signora maritata a un banchiere, che fa le veci di una amica nel ricevere il pianista di turno, invitato a interpretare Chopin per il pubblico di un circolo privato a Barcellona.
L’incipit del romanzo promette bene: l’autore si rivolge alla voce narrante, silente dietro le quinte, e osserva: «La donna è la prima a metterlo in difficoltà…L’uomo è più problematico… Da dove vengono l’alto pianista polacco e l’elegante donna che cammina scivolando leggera… Hanno bussato alla porta tutto l’anno, chiedendo di entrare oppure essere liquidati e lasciati in pace»: si direbbe che Coetzee li abbia riacciuffati al volo prima di vederli dileguare dalle sue fantasie, e li abbia poi affidati a un narratore riluttante, poco immedesimato nel racconto che, tuttavia, si appresta a fornire.
Un certo disprezzo dell’autore per il suo personaggio è già manifesto nel titolo, che appiattisce l’uomo sulla sua nazionalità: il polacco. Gli darà poi un nome pressoché impronunciabile al di qua del confine, Witold Walczykiewicz, e una personalità scialba, non sufficientemente interessante, comunque, da far innamorare Beatriz (la «donna» di cui sopra) che gli si concederà di malavoglia, non prima di averlo ammonito: «Vuoi portarmi a letto? Se è così, lascia che ti dica subito che non succederà». Dopo che quanto non doveva accadere è accaduto, la signora riflette sul sentimento che l’ha guidata e lo chiama «compassione»: il polacco le appare come un vecchio, privo di charme, e forse nemmeno tanto eccelso nell’arte del pianoforte.
Dopo il primo incontro, lui le scrive, la invita a Girona dove le promette di andarla a prendere alla stazione «a qualsiasi ora». Ha appena affermato di essere lì per una masterclass, dunque presumibilmente impegnato, ma non importa: è innamorato, il resto segue. Nonostante la loro relazione sia tutt’altro che travolgente, Beatriz inviterà «il polacco» nella casa che il marito (anche lui destinatario di una passione spenta) possiede a Maiorca: dal primo incontro è passato un anno, ora il pianista le appare come nient’altro se non un vecchio.
Beatriz rievoca le prime impressioni che ha registrato di lui e queste le ritornano indietro disegnandole nella memoria le fattezze di un poseur. Date le premesse, Witold Walczykiewicz è già molto avanti nelle simpatie del lettore quando dopo l’amore dice a Beatriz: «Il mio cuore e pieno», e si porta una mano di lei sul suo petto, ciò che basta alla donna per prefigurargli un infarto: «L’ultima cosa che vuole è un cadavere nel letto» riflette con il tipico trasporto che la contraddistingue. Si separeranno, ognuno riprenderà la sua strada e guarda caso Witold non mancherà a Beatriz «nemmeno un po’».
Lui le scrive mail che lei gentilmente cancella senza leggerle, e man mano che prende corpo nel romanzo, la sua fisionomia psichica si stringe in quella di un personaggio di sinistra qualunquità, che parla a se stessa e ha poco o nulla da dire agli altri. Quando la figlia del «polacco» le telefona per comunicargliene la morte, Beatriz recupera il nome di Witold da un archivio ormai «inattivo», e messa a parte delle poesie che lui le ha lasciato, affiderà il suo commento su quei versi a una lettera che comincia così: «Possiamo essere sinceri l’uno con l’altra ora che sei morto, non ti pare?».
«Credo in una prosa scarna», ha detto Coetzee in una intervista con David Attwell, il suo maggior biografo, «e in un mondo frugale». Forse corrispondono a questa idea i monologhi di Beatriz con la sua coscienza, e la scrittura piatta che traversa tutto il romanzo immunizzandolo da qualsiasi brivido di emozione. Sei anni dopo avere ricevuto il Nobel, in Tempo d’estate, terzo movimento di quella che ha chiamato una autre-biographie, Coetzee si fece descrivere da Sophie, testimone immaginaria della sua vita, come un autore la cui opera «manca di ambizione».
Non si direbbe che la lusinga del prestigioso premio ricevuto abbia avuto la meglio sul suo spirito critico, e questo è senz’altro lodevole: «Non si ha mai la sensazione di un autore capace di forzare il mezzo espressivo per dire ciò che non era mai stato detto prima», fa dire di sé a Sophie. Troppo aderente al vero per essere interpretato come una presa di distanza finzionale, questo verdetto illustra, effettivamente, ciò che ci si può attendere da Coetzee: anche al tempo di Aspettando i barbari, scritto quarantatré anni fa e tutt’ora il suo libro migliore, le grandi capacità evocative che si sprigionavano da quelle pagine erano tutte affidate a una certa enigmaticità dei personaggi e, soprattutto, alle atmosfere sospese dell’avamposto nel nulla in cui era ambientato il romanzo; nessuna pressione, invece, sul linguaggio, nessuna sollecitazione a forzare i confini del mondo immaginato per rendere nominabile quel che fino a un attimo prima non lo era. «Troppo freddo, troppo pulito… troppo poca passione» in Tempo d’estate. Forse anche perciò ha desiderato spesso, e una volta di più per questo suo ultimo romanzo, che la prima pubblicazione fosse non nell’inglese in cui lo aveva scritto, ma in un’altra lingua: l’olandese, in tempi ormai remoti, e più recentemente lo spagnolo, quasi che la traduzione gli offrisse una mimesi del proprio straniamento.
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