A fasi alterne economisti e politici, a seconda di chi sia al governo e all’opposizione, sottolineano da tempo che l’Italia sarebbe in controtendenza rispetto a tanti paesi in termini di salute economica.

Si è sottolineato come la Germania arrancasse, come il Regno Unito dovesse misurarsi con le contraddizioni della Brexit, come Francia e Spagna avessero perso la loro spinta propulsiva.

Dagli incentivi nel provvedimento Industria 4.0 fino al ritrovato turismo post-pandemico, l’Italia era ripartita ed era più forte dei suoi alleati/competitor. Probabilmente il rimbalzo dopo il Covid-19 aveva favorito un certo strabismo nel leggere le vicende nostrane.

Per quanto una ripresa degli investimenti e della produzione industriale si fosse affermata negli ultimi anni, non esistevano segnali di ordine strutturale che potessero indicare un’inversione di tendenza nel Belpaese rispetto agli ultimi, perlomeno, venti anni. I dati del Pil che consolavano ruotavano poi tra lo zero virgola e poco più dell’1%. Numeri che avrebbero dovuto evidenziare il contesto asfittico piuttosto che far gioire.

A rafforzare tale sentimento è stato il progressivo deteriorarsi del quadro in Germania. Si è arrivati ad affermare che la nostra economia stesse divenendo la nuova locomotrice europea, ignorando il ruolo di subfornitrice dell’industria italiana rispetto a quella tedesca, dunque la significativa dipendenza da quest’ultima.

I dati del secondo semestre 2023 arrivano come una gelata.

L’Italia registra una contrazione del Pil dello 0,4%, in Europa fanno peggio solo Polonia, Svezia ed Austria. La produzione industriale è in contrazione, il turismo nostrano è in caduta, probabilmente anche per colpa dell’inflazione nel settore, e non viene sostituito da sufficienti quote provenienti dall’estero.

Questi dati congiunturali non vanno certo assolutizzati (sarebbe operazione tanto impropria quanto quella di chi ha inneggiato al nuovo miracolo italiano), ma certo possono suggerire alcune considerazioni.

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L’Italia è un paese il cui Pil è dato per circa un terzo da esportazioni. Il contesto economico internazionale è in deterioramento. Dalle difficoltà della Cina a quelle tedesche. La Bce si attende un rallentamento della crescita nell’eurozona che dovrebbe passare dallo 0,9 al 0,7% nel 2023 e dall’1,5 all’1% nel 2024. Cifre modeste che si contraggono ulteriormente.

Per chi vive di esportazioni questa tendenziale stagnazione rappresenta un importante problema, non compensato da una robusta domanda interna. I dati al di sotto delle attese sul turismo nostrano ci parlano delle diffuse incertezze che la popolazione vive, confermate dalle molteplici resistenze a ipotizzare un salario minimo per legge attestantesi, per giunta, su valori piuttosto bassi ( 9 euro).

La debolezza interna ci parla dei limiti non risolti emersi perlomeno dal nuovo millennio. Esistono indubbiamente imprese internazionalizzate, imprese che hanno investito, ma nel complesso il tessuto produttivo italiano è incentrato su dimensioni medio-piccole che non riescono a misurarsi con i crescenti gradi di competizione mondiale, se non attraverso una concorrenza sul prezzo su prodotti dal basso valore aggiunto.

È il risultato, anche, del fallimento della decennale moderazione salariale, che ha permesso all’industria italiana d’imboccare questa strada, perdente alla lunga sul mercato interno, ma che fatica anche su quello estero.

A cui si aggiunge l’impossibilità per lo Stato (come avviene invece per Usa e Cina, ma anche per importanti paesi europei) di sostenere produzioni e mercati interni.

Debito elevato e una presunta impossibilità di tassare le ricchezze lasciano le casse dello Stato senza risorse per intervenire. L’Italia viene, così, risucchiata nel vortice dei nuovi problemi globali, senza prospettiva, inchiodata ai suoi tradizionali limiti.