Cultura

Internet Archive perde la causa con Hachette, a rischio tutti i libri aperti e digitalizzati

Il camion della campagna per Internet Archive a San DiegoIl camion della campagna per Internet Archive a San Diego – Brandon Colbert

Editoria Un giudice federale statunitense mette la parola fine alla causa dei grandi editori contro la più grande biblioteca digitale, gratuita e aperta, del mondo. Prestare libri on line viola il diritto d'autore

Pubblicato 29 giorni faEdizione del 8 settembre 2024

Un editore fa chiudere una biblioteca. E già sarebbe grave. Qui però tutto è mastodontico, sovradimensionato: la Hachette Book Group, uno dei più grandi monopolisti dell’editoria per le scuole e le università, di fatto costringerà a chiudere la più grande biblioteca al mondo. Una biblioteca telematica, che funziona on line. Il tutto grazie a – o con la complicità di – un giudice americano, quello della Corte d’appello del secondo circuito.

Cosa è accaduto? E’ di pochi giorni fa, la sentenza che ha dato definitivamente ragione alla Hachette nella causa contro l’Internet Archive: violazione di copyright. Una causa che si è protratta per quattro, lunghi anni.

Il camion della campagna per Internet Archive a San Diego
Il camion della campagna per Internet Archive a San Diego, foto Brandon Colbert

Non è stata una causa “normale”. Perché Internet Archive è qualcosa di più di una biblioteca on line. E’ molto, molto di più: nasce ventotto anni fa, perché uno strano imprenditore filantropo, Brewster Kahle, dopo aver fatto tanti dollari vendendo le sue società alle big tech, decise di dedicarsi completamente ad un altro obiettivo: archiviare e rendere disponibile a chiunque tutto ciò che è pubblicato e prodotto. Parlava e parla di accesso alla cultura, alla conoscenza. Per tutti.

Ha cominciato con la Open Library (la più grande biblioteca di ebook), centinaia di milioni di file. Creati, quando non disponibili dalle case editrici, con uno stupendo nuovo macchinario: due specchi accostati, sui quali si distendono – a mano – le pagine dei libri, che in un secondo diventano un file.

Da lì ha preso le mosse un progetto ancora più ambizioso: Brewster Kahle ha deciso di archiviare tutte le pagine Web prodotte, anche quelle ormai irrintracciabili, vecchi programmi tv, vecchi cartoni animati (lì si può, si possono trovare tutte le antiche produzioni dei Pokemon).

Tutto, dai primissimi notiziari di Mtv ai quotidiani di inizio secolo, fino alla musica che girava sui dischi a 78 giri (in mp3). In tutto venti petabyte, con un petabyte che equivale ad un milione di gigabyte. Per capire: molto di più di quanto ci sia nel datacenter di wikipedia.

Il “core” di Internet Archive – che nel frattempo si è trasformata in un’associazione senza scopo di lucro – è rimasto però sempre il prestito dei libri. In formato digitale, ebook.

Cosa, beninteso, che fanno negli States un po’ tutte le biblioteche. Il prestito dei libri in formato elettronico non è regolato da una norma ma da una sorta di patto: gli e-book vengono assegnati ad un solo utente alla volta per un periodo limitato di tempo. Il successivo prestito avviene solo quando l’ebook viene “restituito”.

Il tutto ha funzionato fino alla pandemia. Quando milioni di studenti si sono trovati a dover studiare a casa, con le biblioteche – quelle tradizionali, coi libri di carta – chiuse. E con altre decine di migliaia di studenti – lo hanno raccontato tutte le indagini – senza i soldi per poterli acquistare su Amazon.

Così Internet Archive ha preso un’iniziativa salutata da tutti con entusiasmo, tranne che da quelle quattro, cinque compagnie che controllano il mercato: Hachette Book Group, HarperCollins, John Wiley & Sons, Penguin Random House. La biblioteca telematica decise che durante il lockdown avrebbe tolto le restrizioni: gli ebook dei libri di testo sarebbero stati “prestati” senza vincoli. A tutti gli studenti che ne avessero fatto richiesta. Anche contemporaneamente.

Da qui, l’avvio della causa giudiziaria contro Internet Archive. All’inizio voluta da tutto il cartello degli editori. Un anno e mezzo fa, la prima sentenza: Internet Archive viola il copyright. A nulla valse, la decisione dell’associazione di sospendere il prestito senza limiti, alla fine del lockdown. La condanna, la prima condanna, comportò la cancellazione nel suo database di cinquecentomila volumi.

Internet Archive, sostenuto da un documento sottoscritto da cinquecento scrittori e professori statunitensi, decise di ricorrere in appello.

La campagna che accompagnò il ricorso, il sostegno da parte di tutti i movimenti democratici, faceva presagire un buon risultato. Anche perché alcune delle case editrici, temendo di ricevere un ulteriore colpo alla loro autorevolezza, si erano – “temporaneamente” – ritirate dalla causa. Mandando avanti Hachette.

Ma non è andata bene. E’ vero che il giudice ha riconosciuto che Internet Archive non lo ha fatto e non lo fa per soldi, non ci guadagna, ma la sentenza non è cambiata.

Gli ebook non autorizzati violano il copyright, non si possono distribuire. Ed ora, lo fa capire l’associazione degli editori, tutte le altre compagnie chiederanno di “adeguarsi alla sentenza”. Chiederanno che tutti i loro libri, da quelli universitari ai romanzi, spariscano da Internet Archive.

Poco importa se lì si trovano libri introvabili, fuori catalogo da decenni, poco importa se senza quel sito molti testi andranno persi per sempre.

Il camion della campagna per Internet Archive a San Diego
Il camion della campagna per Internet Archive a San Diego, foto Brandon Colbert

La biblioteca di Internet Archive rischia di chiudere, insomma. Di sparire. E con essa il diritto alla conoscenza per centinaia di migliaia di persone: basta leggere i messaggi arrivati all’associazione, da tutto il mondo. Per lo più giovani che senza quei testi non avrebbero potuto studiare.

Ma c’è di più. Come rivela Lia Holland che dirige la comunicazione per la combattivissima associazione Fight For The Future: l’irrigidimento degli editori non riguarda solo il guadagno immediato che potrebbero fare decidendo loro quali libri e a “quanto” prestarli. Il loro vero obiettivo è imporre un sistema che obbligherebbe gli studenti ad usare “un certo software” per accedere agli ebook. Sistema che regalerebbe ad Hachette e agli altri milioni di dati. Soprattutto quelli dei giovani, molto ambiti. Da utilizzare o da vendere ai migliori offerenti.

Ecco perché s’è scatenata la protesta. On line ma anche nelle strade.

Contro quella sentenza, per dirla con Lawrence Lessig – professore ad Harvard, uno dei padri dei Creative Commons, che non ha bisogno di presentazione – che ci racconta solo di come “i barbari siano arrivati alle porte”.

Qualcuno ha scritto ad Internet Archive dicendo che “Orwell ci aveva messo in guardia da tutto ciò” (e dato curioso: il suo 1984 è appunto fra i 500 mila ebook che è stato cancellato già l’anno scorso). Wikileaks ha aggiunto: “Doveva essere un romanzo, è diventato un manuale di istruzioni”.

L’unica speranza, come dicono le organizzazioni per i diritti digitali, è ora in una legge federale americana che regoli il prestito degli ebook, sottraendo il settore alle scelte degli editori. Ma ci credono in pochi.

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