La vicenda artistica e umana di Mishima Yukio è stata spesso associata alle arti drammatiche. In quanto autore, grazie alla sua scrittura per il teatro con i no moderni, i drammi di ispirazione europea e anche i kabuki e joruri (il teatro dei burattini); in quanto uomo, per la messa in scena delle molte versioni e sfumature del suo sé pubblico, e ovviamente per il coup de théâtre che è stato il suo tragico atto finale. Inoltre, in Confessioni di una maschera (1949), un libro virtuoso e freddo, dove i piani temporali e quelli della realtà e del sogno si confondono, il passato è oggetto di un’invenzione che si veste da memoria, e la struttura solida e familiare del romanzo di formazione viene asservita al rievocare uno sviluppo non lineare, una temporalità scandita da epifanie, continui ritorni, immagini di forte impatto.

Ora, quattordici studiosi italiani e giapponesi hanno esaminato alcuni aspetti della poetica e della vita di questo autore in Mishima e l’atto performativo Drammaturgie di un artista (a cura di Giovanni Azzaroni, Matteo Casari e Katja Centonze, Clueb, pp. 263, € 29,00).

Il sospetto che su Mishima e il teatro non ci sia più molto da dire è subito fugato dall’esauriente elenco dei contenuti, dove troviamo rapporti tra l’autore e importanti personalità del mondo teatrale, riferimenti alla danza, alla fotografia, al cinema, suggestioni orientaliste, testimonianze della ispirazione venuta da tempi, luoghi e figure talvolta scarsamente considerati. L’elemento di maggior interesse del volume sta nel chiarire come la categoria di «performatività» sia la più efficace per descrivere l’opera di Mishima: non soltanto i drammi teatrali e il racconto «Patriottismo» (poi trasposto in un film) ma l’esercizio stesso della scrittura che, di fatto, produce atti con le parole. Anche i suoi romanzi, sebbene alcuni siano apparentemente lontani dal mondo del teatro, implicano una interiorizzazione della pratica drammaturgica: lo dimostrano sia l’impostazione delle sequenze dialogiche sia la struttura della narrazione, che – come efficacemente suggeriscono i curatori – sembra obbedire ai criteri di sviluppo teorizzati da Zeami per il no.

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La complessità di questo scrittore così abile nel confondere i molteplici piani dell’esperienza per esaltarne emozioni utili a sciogliere i grandi misteri della vita – il corpo, la morte, l’arte – viene ben restituita dal volume, che segue «il labirinto Mishima» lungo le direttrici più diverse: i saggi di Ruperti, Cardi, Casi e Moricone lo leggono alla luce dei suoi rapporti, effettivi o artistici, con attori e drammaturghi giapponesi e occidentali; la performatività come principio della sua poetica è oggetto dei testi di Kasai, Centonze, Sica e Doi; temi come la morte e il corpo sono affrontati da D’Orazi (che li collega all’arte del butoh), Marenzi e Giorgio Amitrano; mentre Natili trasporta Mishima in Brasile, terra legata al Giappone da una significativa vicenda migratoria e avvincenti, quanto poco noti, sviluppi artistici.