Avere notizie certe della sollevazione che da cinque giorni infiamma l’Iran non è semplice: la rete internet è debolissima, tagliata da Teheran. Ieri l’ultima app disattivata è stata Instagram.

Di certo la protesta si sta allargando, quasi tutte le province sono ormai coinvolte. Sarebbero almeno 14 i manifestanti uccisi, centinaia i feriti, ignoto il numero degli arrestati. In Rojhilat, il Kurdistan iraniano, è stato indetto lo sciopero generale.

In prima fila ci sono le donne: bruciano i veli, tagliano i capelli, si scontrano con la polizia. A scatenare la sollevazione è stata l’uccisione, per mano della polizia morale, della 22enne curda Mahsa Amini, venerdì scorso. Alla sua famiglia un consigliere dell’Ayatollah Khamenei ha espresso le condoglianze del leader religioso che avrebbe promesso di indagare.

Ma gli slogan sono chiari: «Morte al dittatore», «Donna, vita, libertà». Nella città di Sari un manifestante si è arrampicato sulla facciata del Comune e ha distrutto l’immagine di Khomeini, il padre della Repubblica islamica.

A intervenire ieri sarebbe stato anche Anonymous, il collettivo hacker chiamato in causa dagli iraniani sui social perché aiutasse a disattivare i siti del governo: pare lo abbia fatto, bloccando la tv di Stato e alcuni servizi governativi per qualche ora.

Della sollevazione abbiamo parlato con Fariborz Kamkari, regista curdo-iraniano, autore tra gli altri dei film I fiori di Kirkuk e Essere curdo e del romanzo Ritorno in Iran.

Cosa sta accadendo in Iran?

Non è una rivolta di quelle che ormai si verificano ogni anno: stavolta ha le caratteristiche di una rivoluzione. Per quattro motivi. Primo, per la prima volta in 43 anni riguarda tutto il paese e non solo una sua parte, che sia il Kurdistan o il sud est a maggioranza araba, come accaduto due settimane fa, proteste subito sedate. Secondo, partecipano tutte le classi sociali: in passato abbiamo assistito a proteste della piccola borghesia, altre volte della classe bassa. Stavolta partecipano poveri, lavoratori, classe media. Terzo, non ci si è mobilitati per motivi economici, la gente sta chiedendo libertà. Quarto, è completamente fuori dal controllo di qualsiasi organizzazione interna al regime che per anni ha mostrato una doppia faccia, riformisti contro conservatori. Oggi la rivolta è contro il regime in sé e lo si capisce dalla reazione compatta di tutte le forze politiche. Bruciare il velo è bruciare la bandiera: questo regime ha usato il velo come rappresentazione della propria ideologia. Oggi la gente dice no all’intero sistema politico del paese, alla natura stessa della Repubblica islamica.

Fariborz Kamkari

Perché ora? La morte di Amini è stata la scintilla di un dissenso che cercava sfogo?

Il suo vero nome non è Mahsa ma Jhina. In Iran non possiamo usare nomi curdi, che restano ufficiosi, diversi da quelli ufficiali dei documenti di identità. Jhina significa «nuova vita». E sta davvero dando una nuova vita al paese. È successo oggi perché l’Iran sta già soffocando da tempo. Negli ultimi otto anni ci sono state rivolte cicliche, ma il regime è riuscito a scollegarle tra loro, usando diversi strumenti. Prendiamo il Kurdistan: lì le proteste ci sono dal 1979, mentre Khomeini veniva portato in trionfo i partiti curdi avevano già coniato lo slogan «Autonomia per il Kurdistan, democrazia per l’Iran». Con le rivolte curde, il regime spaventa gli iraniani dicendo che si tratta di indipendentisti. Se protestano i lavoratori, il regime spaventa la classe media.

Ma stavolta la sollevazione è l’accumulazione di tutte le sofferenze del popolo iraniano. La situazione economica è terribile, ma lo slogan che risuona è il diritto a poter scegliere per sé. Per decenni, quando contestavamo l’obbligo del velo, molti rispondevano che non era certo il problema principale. Oggi la gente mostra che lo è perché rappresenta la libertà individuale, la possibilità di scegliere per sé, il simbolo della propria volontà. Gli iraniani non stanno chiedendo solo pane o lavoro, ma libertà. Altre volte ci rispondevano dicendo che l’hijab è una caratteristica della nostra cultura. Non è così: è stato imposto dalla rivoluzione islamica che ha obbligato le donne a indossarlo. Bruciando il velo, bruciano quel mito.

Che ruolo hanno le donne?

Il sistema è stato disegnato per marginalizzare le donne e togliere loro ogni ruolo politico, culturale, sociale. La donna deve essere moglie e madre, il suo dovere è procreare e crescere i figli. Le donne iraniane non lo hanno mai accettato e sono sempre state motore di cambiamento. Andate in Iran, vedrete che fanno qualsiasi cosa. Questa è una rivoluzione femminile perché sono loro che organizzano la piazza, che vanno contro la polizia, che bruciano il velo. E sono sostenute dagli uomini, è la novità. La furbizia del regime è stata creare divisioni che sono entrate anche in casa: se crei un sistema a favore degli uomini, gli uomini diventano i rappresentanti del regime anche tra le mura domestiche. Oggi però sono al fianco delle donne.

E i giovani?

Oggi i giovani usano internet, conoscono il mondo fuori, sono più difficili da domare. Il 60% della popolazione iraniana ha meno di 30 anni, persone che non ricordano o non hanno partecipato alle grandi rivolte del 1999 e del 2009. Le università si sono risvegliate. Dopo le proteste del 2009 il regime era riuscito a disinnescare gli studenti, ma oggi sono nuovo motore di protesta contro il tentativo di escluderli dal discorso politico e sociale.

Teheran saprà mostrare elasticità, concedere qualcosa per sopravvivere?

È difficile, è costruito su questi principi. Se vengono meno, cade l’intera impalcatura della Repubblica islamica. Per questo non cambia nonostante la maggioranza degli iraniani non voglia più l’hijab o il controllo sulla libertà personale. Nelle grandi città i cittadini vengono trattati in modo più morbido, ma nelle piccole città o in Kurdistan vengono gestiti con la violenza. E nessuno paga per queste violenze: il presidente Raisi in queste ore è all’Assemblea generale dell’Onu, eppure è il «giudice della morte», nel 1988 partecipò alla condanna a morte di 6mila prigionieri politici, per lo più mujaheddin e comunisti. Ma partecipa al consesso internazionale.

Tra le richieste della piazza c’è la soppressione della polizia morale.

La polizia morale è stata una delle prime invenzioni di Khomeini per costruire la sua società ideale, a fronte della contrarietà della maggior parte della popolazione all’hijab o di altri comportamenti pubblici non in linea con i principi del regime, dall’abbigliamento alla pettinatura fino al linguaggio. All’inizio della rivoluzione tanti di noi ricordano le punizioni corporali, come gli aghi in fronte. La polizia morale è uno strumento efficace per terrorizzare, soprattutto i giovani: è davanti a ogni liceo e a ogni facoltà, controlla come si ci veste, cosa si scrive sui telefoni. Ferma le auto dove ci sono uomini e donne per verificare i loro rapporti familiari. In ogni caso la protesta in corso non vuole la fine della polizia morale, ma la fine dell’intera natura del regime.