Il «centro di realizzazione» Amazon di Staten Island è denominato «JFK 8» ed è composto in realtà da tre mastodontici capannoni (vicini all’attiguo magazzino Ikea).

Nel complesso logistico all’estremità ovest del borough meno cosmopolita e più working class di New York, lavorano 7mila dipendenti del secondo datore di lavoro d’America. Qui i lavoratori arrivano da ogni altro quartiere della città per lavorare ai turni continui di 1200-1500 operai per volta, 24 ore al giorno.

«Sul traghetto che collega l’isola a Manhattan – spiega al manifesto Angelika Maldonado, un’operaia che sta cercando di organizzare un sindacato di lavoratori Amazon – li riconosci per i badge che hanno al collo e le borse trasparenti, l’accorgimento per velocizzare i controlli cui sono sottoposti tutti gli operai in uscita».

RAPIDITÀ ED EFFICIENZA sono vangelo per il gigante di Seattle che impiega oggi in America 1,1 milioni di persone e altri 400mila circa nei magazzini di distribuzione sorti come funghi in ogni città del mondo.

Per garantire le tempistiche sempre più ambiziose di consegna quasi istantanea ai clienti Prime, l’azienda è leader in sistemi robotici per automatizzare il più possibile le operazioni di immagazzinamento e distribuzione (nel 2012 l’azienda ha acquistato la produttrice di robot Kiva Systems e messo in funzione 200mila robot nei propri centri).

Poster del sindacato nella sede Amazon di Staten Island (Ap)

Il progetto è quello di eliminare il più possibile l’imperfezione dell’elemento umano mediante la robotica, il machine learning e l’intelligenza artificiale – macchine, ad esempio, come le imballatrici «carton wrap» in grado di confezionare 6-700 pacchi l’ora con efficienza cinque volte superiore a quella degli umani.

Per il momento però gli operai sono ancora parte necessaria, se pure anello debole, dell’ingranaggio: lo scorso giugno un rapporto compilato dallo Strategic Organizing Center, finanziato da una coalizione di sindacati, ha rilevato un’incidenza di infortuni tra i dipendenti Amazon superiore dell’80% rispetto ai concorrenti, questo dopo che erano trapelate le note indiscrezioni sugli autisti costretti a fare i bisogni in bottiglie di plastica per rispettare le tabelle di marcia delle consegne.

«IO SONO UN’IMBALLATRICE di prima fascia – ci dice Maldonado, 27 anni, operaia del JFK 8 – I capireparto ci ronzano sempre intorno, “forza raggiungiamo la quota”, poi spariscono e a noi tocca farci un mazzo». Angelika che ha un figlio di quattro anni, da due lavora in Amazon. Conferma che mancare la quota prefissata di efficienza conduce a un avvertimento.

Alla terza segnalazione scatta il licenziamento automatico. L’allontanamento è insindacabile, appunto, perché l’azienda è rigorosamente contraria alla rappresentanza collettiva dei propri lavoratori.

Con la sua enorme forza lavoro Amazon è all’avanguardia insomma non solo dell’automazione ma anche del precariato sistemico. I centri Amazon, modelli di efficienza nell’esaudire le ordinazioni e «le aspettative dei consumatori moderni», sono anche luoghi simbolo del lavoro lumpen che si cela dietro molta filiera digitale, improntata al liberismo militante che prevale nella Silicon Valley.

L’azienda è quindi diventata un obiettivo principale di organizzatori sindacali che dal periodo pandemico e di «lavoro essenziale» hanno ricevuto un impulso, organizzando lotte e vertenze in molti settori industriali e commerciali.

Nel gennaio 2021 400 lavoratori di Google hanno annunciato la formazione della Alphabet Workers Union, alcuni mesi dopo è stata annunciata la prima sindacalizzazione di un punto vendita Starbucks.

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E LO SCORSO ANNO ha fatto molto parlare il tentativo di unionization del centro Amazon di Bessemer, nello Stato dell’Alabama (un altro colosso da 6mila lavoratori, per il 70% afroamericani).

A Staten Island la mobilitazione è cominciata nel 2020 quando in molti impianti Amazon si è registrata un’impennata di contagi Covid.

A fronte del rifiuto della direzione di disporre misure di sicurezza venne allora organizzato un primo sciopero guidato da Chris Smalls, un lavoratore della JFK 8 che è stato subito licenziato. Smalls ha continuato a cercare di organizzare i colleghi dall’esterno, mettendo un gazebo per la raccolta di firme davanti allo stabilimento con grande irritazione dell’azienda che è giunta a farlo arrestare per aver messo piede nel parcheggio aziendale.

Chris Smalls, l’ex dipendente di Amazon alla guida del primo tentativo di sindacalizzazione dei lavoratori dell’azienda, durante la raccolta firme per andare al voto, ottobre 2021

All’interno però il comitato di lavoratori è cresciuto ed è riuscito a raccogliere la quota di firme necessarie (il 30%) per forzare un voto definitivo questa settimana. «Non è stato facile avere quelle firme», dice Cassio Mendoza, impiegato di 23 anni, parte del comitato.

«C’è un turnover pazzesco, se ne vanno 150 lavoratori ogni settimana. Là dentro c’è di tutto, giovani, anziani, ex professori, ex detenuti, bianchi, soprattutto neri e ispanici. Comunque siamo tutti poveri». È un identikit che hanno in comune un po’ tutti i centri Amazon, predicati su vasti serbatoi di lavoratori «flessibili».

IN ALABAMA per bloccare il sindacato, Amazon ha impiegato una controffensiva serrata a base di «sedute informative» obbligatorie per dissuadere i lavoratori, l’uso di consulenti privati, sms inviati ai lavoratori e una generale campagna intimidatoria, compreso il rafforzamento dei sistemi di videosorveglianza per dissuadere le discussioni fra operai.

Il voto alla fine è stato di due terzi contro il sindacato ma la Nlrb, organo federale di vigilanza, ha ritenuto illecite le tattiche dell’azienda e ordinato che si tenesse una seconda votazione.

Anche al JFK 8, conferma Mendoza, la campagna anti-union è stata serrata. «Ci hanno costretto a seguire quelle lezioni anti-sindacato, ovunque hanno affisso enormi cartelloni per convincerci che il sindacato vuole solo i nostri soldi, è un martellamento».

«Fanno qualunque cosa per seminare la paura e la confusione tra i lavoratori – aggiunge Maldonado – compreso tagliare gli straordinari a noi organizzatori».

ORA LA PAROLA PASSA ai voti. A breve si attendono i risultati delle votazioni di New York e dell’Alabama. In caso di vittoria si tratterebbe della prima breccia dei sindacati nella efficiente fortezza Amazon. «Se non ce la facciamo non fa niente – conclude Mendoza – Vuol dire che ci riproveremo».