Voglio congratularmi col sindacato Amazon di Staten Island per la loro straordinaria vittoria. Per la prima volta sono riusciti ad organizzare una rappresentanza sindacale in quell’azienda”. Il messaggio di Bernie Sanders ha sottolineato il carattere storico dell’elezione con la quale i lavoratori hanno scelto di creare il primo sindacato Amazon per 2.654 a 2.131 voti.

Un esito che Jeff Bezos aveva cercato di impedire spendendo 4,3 milioni di dollari in consulenti e una propaganda incessante per spingere il messaggio sempre reiterato secondo cui “ad Amazon non abbiamo bisogno di sindacati che si interpongano fra noi e i nostri lavoratori’”. L’’idea è stata sonoramente respinta dagli operai dell’azienda che hanno fatto breccia nel muro del mega retailer.

Il “centro di realizzazione” Amazon di Staten Island è denominato “JFK 8” ed è composto in realtà da tre mastodontici capannoni (vicini all’attiguo magazzino Ikea). Nel complesso logistico all’estremità ovest del borough meno cosmopolita e più working class di New York, lavorano 7000 dipendenti del secondo datore di lavoro d’America.

Qui i lavoratori arrivano da ogni altro quartiere della città per lavorare ai turni continui di 1.200-1.500 operai per volta, 24 ore al giorno. “Sul traghetto che collega l’isola a Manhattan,” ci spiega Angelika Maldonado, un’operaia che sta cercando di organizzare un sindacato di lavoratori Amazon, “li riconosci per i badge che hanno al collo e le borse trasparenti” – l’accorgimento per velocizzare i controlli cui sono sottoposti tutti gli operai in uscita.

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Rapidità ed efficienza sono vangelo per il gigante di Seattle che impiega oggi in America 1,1 milioni di persone e altri 400.000 circa nei magazzini di distribuzione sorti come funghi in ogni città del mondo. Per garantire tempistiche sempre più ambiziose di consegna quasi istantanea ai clienti Prime, l’azienda è leader in sistemi robotici per automatizzare il più possibile le operazioni di immagazzinamento e distribuzione (nel 2012 l’azienda ha acquistato la produttrice di robot Kiva Systems e messo in funzione 200.000 robot nei propri centri). Il progetto è quello di eliminare il più possibile l’imperfezione dell’elemento umano mediante la robotica, machine learning e intelligenza artificiale – macchine ad esempio come le imballatrici “carton wrap” in grado di confezionare 600-700 pacchi l’ora con un’efficienza cinque volte superiore a quella degli umani.

Una consegna Amazon a New York, foto Getty Images

Per il momento però gli operai sono ancora parte necessaria, se pure anello debole, dell’ingranaggio.

Lo scorso giugno un rapporto compilato dallo strategic organizing center finanziato da una coalizione di sindacati, ha rilevato un’incidenza di infortuni fra dipendenti Amazon superiori dell’’80% rispetto ai concorrenti, questo dopo che erano trapelate le note indiscrezioni sugli autisti costretti a fare i propri bisogni in bottiglie di plastica pur di rispettare le tabelle di marcia delle consegne.

“Io sono un’imballatrice di prima fascia,” ci dice Maldonado, di 27 anni operaia del JFK 8. “I capireparto ci ronzano sempre intorno – ‘forza raggiungiamo la quota’ – poi spariscono e a noi tocca farci un mazzo.” Angelika, che ha un figlio di quattro anni, da due lavora in Amazon, conferma che mancare la quota prefissata di efficienza risulta in un avvertimento. Alla terza segnalazione scatta il licenziamento automatico.

L’allontanamento è insindacabile appunto, perché l’azienda è rigorosamente contraria alla rappresentanza collettiva dei propri lavoratori.

Con la sua enorme forza lavoro, Amazon è all’avanguardia insomma non solo nell’automazione ma anche nel precariato sistemico.

I centri Amazon, modelli di efficienza nell’esaudire le ordinazioni e “le aspettative dei consumatori moderni,” sono anche luoghi simbolo del lavoro lumpen che si cela dietro molta filiera digitale, improntata al liberismo militante che prevale a Silicon Valley. L’azienda è quindi diventata un obbiettivo principale di organizzatori sindacali che dal periodo pandemico e dal riconoscimento di “lavoro essenziale” hanno ricevuto un impulso, organizzando lotte e vertenze in molti settori industriali e commerciali.

Nel gennaio 2001 400 lavoratori di Google hanno annunciato la formazione della Alphabet Workers Union, alcuni mesi dopo è stata annunciata la prima sindacalizzazione di un punto vendita Starbucks a Buffalo. E lo scorso anno ha fatto molto parlare il tentativo di unionization del centro Amazon di Bessemer, in Alabama (un altro colosso da 6.000 lavoratori, al 70% afroamericani.)

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A Staten Island la mobilitazione è cominciata nel 2020 quando in molti impianti Amazon si è registrata un’impennata di contagi Covid. A fronte del rifiuto della direzione di disporre misure di sicurezza venne allora organizzato un primo sciopero guidato da Chris Smalls, un lavoratore della JFK8 che è stato subito licenziato. Smalls ha continuato a cercare di organizzare i colleghi dall’esterno, mettendo un gazebo per la raccolta di firme davanti allo stabilimento innescando una  grande irritazione dell’azienda che è giunta a farlo arrestare per aver messo piede nel parcheggio aziendale.

Il sindacalista Christian Smalls commenta la vittoria dei lavoratori al magazzino Amazon di Staten Island (NYC), foto Andrea Renault / Getty Images

All’interno però il comitato di lavoratori è cresciuto ed è riuscito a raccogliere le firme necessarie (30%) per forzare un voto definitivo questa settimana.

“Non è stato facile avere quelle firme,” dice Cassio Mendoza, 23 anni, parte del comitato. “C’è un turnover pazzesco, se ne vanno 150 lavoratori ogni settimana. Là dentro c’è di tutto: giovani, anziani, ex professori, ex detenuti, bianchi, soprattutto neri e ispanici. Comunque siamo tutti poveri”. È un identikit che hanno in comune un po’ tutti i centri Amazon, basati su vasti serbatoi di lavoratori “flessibili.”

In Alabama, per bloccare il sindacato Amazon ha impiegato una controffensiva serrata a base di “sedute informative” obbligatorie per dissuadere i lavoratori, Sms inviati ai dipendenti e una generale campagna intimidatoria, compreso il rafforzamento dei sistemi di videosorveglianza per scoraggiare le discussioni fra operai.

Il voto alla fine è stato di due terzi contro il sindacato ma la NLRB, organo federale di vigilanza, ha ritenuto illecite le tattiche dell’azienda e ordinato che si tenesse questa settimana una seconda votazione. Stavolta il risultato è stato di 993 “No” e 875 “Sì” ma con 400 schede contestate che andranno verificate nelle prossime settimane.

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Anche al JFK8, conferma Mendoza, la campagna anti-union è stata serrata. “Ci hanno costretto a seguire quelle sedute anti-sindacato, ovunque hanno affisso enormi cartelloni per convincerci che il sindacato vuole solo i nostri soldi – è stato un martellamento”. “Hanno fatto di tutto per seminare la paura e la confusione fra i lavoratori,” aggiunge Maldonado, “compreso tagliare gli straordinari a noi organizzatori.”

Tutto ma non abbastanza per impedire la vittoria dei lavoratori che hanno aperto per la prima volta la breccia dei sindacati nella efficiente fortezza Amazon.