«Rendere pubblico il privato», recita lo slogan di un video emozionante: uscire dal silenzio. Volti, donne, albanesi. Gli stessi volti di un corteo che ha colorato Tirana per l’8 marzo.

«Loro lo chiamano amore, noi lo chiamiamo lavoro non pagato», recita il cartello di una manifestante. Ma è lo striscione principale che detta il ritmo a tutta la dimostrazione: «Patriarcato, Pandemia, Ineguaglianza», che in albanese sono tre P, come le tre P di «public-private-partnership», che per i collettivi femministi sono la spiegazione dei mali dell’Albania, un paese dove lo stato fa affari con i privati, e viceversa, in un rapporto che trent’anni di transizione non hanno cancellato, anzi, hanno rafforzato.

«La manifestazione era simbolica, non abbiamo voluto esporre le donne ai rischi della pandemia, ma nonostante le condizioni attuali volevamo appropriarci simbolicamente dello spazio pubblico in Piazza Skanderbeg per dare i nostri messaggi. Rendere pubblico il privato con l’esposizione di un messaggio dai balconi e dalle finestre delle nostre case, anche con un video».

Il corteo delle donne a Tirana, 8 marzo 2021 (foto di Christian Elia)

Rea Nepravishta è una delle più attive del gruppo, racconta e organizza, partecipa e rappresenta quella generazione di giovani donne albanesi che hanno preso in mano il loro futuro e, si spera, anche quello del paese.

«La necessità di questo 8 marzo 2021 era di gridare al mondo intero che il peso maggiore della pandemia è stato sopportato dalle donne. Il nostro comunicato diceva che “le donne hanno sostituito lo Stato sociale”, prendendosi cura dei malati e della parte più fragile della società. Il Covid ha mostrato le fragilità della società. Per tutto questo c’è bisogno di uno stipendio per le mansioni di casa – una delle richieste più sentite della manifestazione di ieri – ed è un atto politico».

Rea spiega anche le tre P: «PPP rappresenta il volto più aggressivo delle politiche neoliberaliste che il governo ha messo in atto negli ultimi anni per gestire il bene pubblico. Noi abbiamo tirato un parallelo dicendo che il PPP delle donne è Patriarcato, Pandemia, Ineguaglianza e le politiche neoliberali mettono il profitto davanti alla vita umana e questo si ripercuote in modo disproporzionale sopra le spalle delle donne. Questa situazione è aggravata dalle politiche aggressive portate avanti negli ultimi vent’anni da questo governo e da tutti i governi precedenti, che non hanno mai avuto la sensibilità per prendersi cura della vita. La riduzione dello Stato sociale e dei servizi pubblici, la mancanza di assistenza sociale, concentrazione delle risorse nel settore private sono politiche che hanno strangolato le categorie più emarginate, tra cui le donne delle periferie con redditi bassissimi, le donne lavoratrici, le donne Lbt, donne sopravvissute a violenze sessuali; donne che per condizione economica sono costrette a convivere con il loro aggressore, donne che si prendono cura di altre persone malate in casa. In fondo il capitalismo selvaggio è il braccio economico del patriarcato».

Con Rea c’è, tra le altre, Deni Sanxhaku, attivista femminista di Tirana. «C’è tanto lavoro da fare in Albania: una società tradizionale, dogmi moralisti radicati nei secoli, che considerano la donna come un essere di seconda mano; l’onore del patriarcato, i matrimoni combinati dal padre. Dall’altra parte combattiamo la società neoliberale delle privatizzazioni – spiega Deni – Mentre la pandemia è teoricamente gestita dallo Stato, i servizi fondamentali per la vita come l’educazione e la sanità sono progressivamente passate alla gestione del privato. Le donne sono coinvolte in prima linea. Un esempio personale viene dalla reazione che ha causato il mio slogan appeso alla finestra “Rifiuto le mansioni di casa”, dal quale non solo alcuni uomini si sono sentiti minacciati, ma anche alcune donne hanno reagito male dimostrando un’internalizzazzione delle norme patriarcali, diventando stampelle di una società prevalentemente tradizionale-patriarcale-capitalista».

L’8 marzo di Tirana (foto di Christian Elia)

Una generazione è in marcia e non ha più voglia di aspettare. Ma quanto, da Tirana, si riescono a coinvolgere le periferie, i villaggi? «Il nostro è un femminismo inclusivo che ha lo scopo, attraverso le nostre azioni, di rendere visibile e materiale quello che normalmente è invisibile e silenzioso. Per questo noi intendiamo includere tutte le donne, soprattutto quelle escluse, le cui storie non sono mai andate nei media mainstream o all’attenzione del femminismo liberale. L’approccio di quest’ultimo esclude la lente delle classi, che suggerisce come, nonostante siamo donne, viviamo la violenza e la discriminazione in maniera diversa, a causa dello status sociale o della posizione geografica o della qualifica professionale. Noi cerchiamo di raggiungere la donna della periferia, nelle zone rurali, che lavora nelle fabbriche. È diventato più difficile con la pandemia, ma noi siamo coscienti di venire da una posizione privilegiata, ecco perché nelle nostre attività noi cerchiamo di uscire dal centro e raggiungere la periferia, dove la donna è più repressa».

Il futuro delle donne albanesi non vuole attendere, anche per sdoganarsi dal passato. «Dobbiamo decolonizzare il rosso», diceva uno degli slogan, perché in Albania la memoria del regime spesso blocca anche un discorso pubblico sui diritti. «Il regime ha portato la donna fuori dalla sfera domestica con l’intento di renderla uguale all’uomo nella sfera pubblica – conclude Rea – Le donne albanesi la cui vita fino ad allora si circoscriveva dentro le mura di casa, con scarsa istruzione, finalmente potevano beneficiare dell’accesso all’educazione e all’occupazione in maniera tendenzialmente uguale agli uomini. Per quei tempi fu un grande passo avanti. Nonostante questo, le donne sono rimaste le uniche a occuparsi degli figli e della casa, in aggiunta al lavoro nella sfera pubblica. L’aspetto più problematico della condizione della donna sotto la dittatura era la vita asfissiata dalla mancanza di libertà, ma il sistema piramidale del potere, con la figura del Dittatore-Uomo, si rifletteva nella società a partire dalla famiglia. Dobbiamo ai nostri genitori e ai nostri nonni il rifiuto totale di ogni forma di oppressione, anche quando arriva dalle politiche dell’odierno sistema capitalistico».