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Maia Morgenstern, in scena a Bucarest

Maia Morgenstern, in scena a Bucarest

Intervista L’attrice, stella della scena teatrale bucarestina, interprete di serie tv e programmi radiofonici è anche docente emerita dell’università Hyperion, e direttrice del Teatro ebraico di stato: incontro

Pubblicato 16 minuti faEdizione del 28 settembre 2024

All’estero Maia Morgenstern è nota soprattutto per le sue interpretazioni cinematografiche con registi come Radu Mihaileanu, Theo Angelopoulos, Márta Mészáros e naturalmente Mel Gibson (che, si dice, presto girerà il sequel della Passione, in cui lei interpretava Maria). Ma in Romania, dove l’attrice è nata e dove vive, quando non è in tournée, i confini della sua fama sono assai più spaziosi: stella della scena teatrale bucarestina, interprete di serie tv e programmi radiofonici, docente emerita dell’università Hyperion, direttrice del Teatro ebraico di stato – ed è da qui che prende avvio la nostra conversazione nel più antico ristorante di Bucarest, Hanu Lui Manuc, in un piovosissimo pomeriggio.

Da qualche anno lei dirige il Teatro ebraico di Bucarest. Me ne vuole parlare?
Sì, il Teatro ebraico di Stato. Lo preciso, perché è importante ricordare che il Teatro ebraico di Stato esiste dal 1948. Prima, nel nostro edificio c’era già un teatro, il Barasheum, dal dottor Iuliu Barasch, un medico che nell’Ottocento diede la sua casa agli artisti, agli attori, ai musicisti. Ma il punto è che nel 1940, con le leggi razziali, gli ebrei che facevano teatro si sono ritrovati da un giorno all’altro a non poter più lavorare. Quando ne parlo, c’è gente che fa, uffa, è la solita storia, e invece bisogna parlarne, e di come quegli attori hanno cominciato a firmare petizioni su petizioni, e finalmente hanno avuto il permesso di mettere su degli spettacoli. Ma niente yiddish, era vietato, e dovevano riferire tutto quello che facevano. Solo dopo la guerra, nel ’48, il governo rumeno, sì, il governo comunista, ha aperto il Teatro ebraico di Stato, dove la lingua yiddish era non solo permessa, ma accolta con onore. Così, quando sento discorsi tipo ’Dovreste essere grati di aver avuto il vostro teatro durante la guerra’, eh no, quello era un ghetto, non un teatro, non c’era scelta. Dopo la guerra, a Iasi, c’era un altro Teatro ebraico di stato, ma è stato chiuso nel ’63 o giù di lì, perché gli artisti avevano fra loro visioni diverse. A volte succede, ma noi a Bucarest ci siamo ancora, e cerchiamo di portare avanti le nostre tradizioni, la nostra eredità yiddish. E partecipiamo a un progetto europeo che ha questo compito: preservare, coltivare e trasmettere.

Ma oggi quante persone parlano yiddish o anche solo lo capiscono in Romania?
È una buona domanda. Questo progetto europeo, che è una rete di vari paesi, è nato appunto perché il tempo passa e lo yiddish rischia di scomparire. Le persone che lo parlano sono sempre meno, bisogna reimpararlo. Io stessa lo faccio, e con fatica, perché i miei genitori, che lo sapevano, non volevano si parlasse in casa.

Come mai?
Avevano le loro ragioni, non sta a me dire se buone o cattive. C’è un pregiudizio, che gli ebrei abituati a parlare in yiddish, quando parlano rumeno, hanno un tono cantilenante, una sonorità particolare. I miei genitori volevano che fossi al riparo dalle critiche, che parlassi il rumeno perfettamente, con i suoi casi e le sue modulazioni. Una volta, ricordo, è venuto un ispettore, e hanno chiamato me a dire una frase come esempio. I miei genitori volevano semplicemente che io fossi una bambina come le altre, tranquilla e felice.

Erano attori?
No, no, matematici e comunisti. Mio padre non è mai stato membro del partito, non ne ha mai avuto vantaggi. E comunque, non avrebbe potuto essere membro del partito, perché era abituato a dire la verità e a criticare gli errori. E di errori politici ce n’erano tanti.

E come ha deciso di diventare attrice?
Per la verità lo desideravo, ma non avevo il coraggio di dirlo, mi sembrava impossibile. Così mi sono iscritta per entrare a medicina, a Botosani, in Moldavia, dove c’erano parenti. Un disastro! È stato mio padre a capire, mi ha detto: «Tu vuoi diventare un’attrice». A quel tempo a casa non avevamo nemmeno la tivù, mi mancavano certe cose che vedevano i miei amici, Dallas, per esempio, ma in compenso ascoltavo tanta radio, le letture dei grandi attori, gli adattamenti radiofonici dei capolavori della drammaturgia. Ho imparato moltissimo ascoltando, cercando di immaginare le situazioni, per me è stata una grande lezione. Al primo anno, però, non ho superato l’esame d’ammissione. Una tragedia: quanto ho pianto, e mia madre più di me, me l’ha confessato anni dopo. Dopo due settimane, i miei genitori mi hanno detto: «Prova con il Teatro ebraico di Stato». Io non volevo, non mi piaceva, c’erano molti spettacoli di intrattenimento, spettacoli musicali. E poi, volente o nolente, ho cominciato: ho imparato a ballare e a cantare, ho imparato cosa significa esibirsi con due persone in sala. Non le mandi a casa, no, resti sul palco, cerchi di fare del tuo meglio. E ho imparato che abbiamo un tesoro e dobbiamo mantenerlo vivo, anche se non è facile.

Che tipo di programmazione fate al Teatro ebraico di stato? Solo in yiddish o anche in rumeno?
Ma no, mettiamo in scena spettacoli diversi, non solo in yiddish. Le faccio il primo esempio che mi viene in mente, Rude Pierdute (Lost Relatives), di Nava Semel, un’autrice israeliana scomparsa qualche anno fa. È un testo in ebraico di cui mi sono subito innamorata perché è molto forte, complesso, parla di donne sopravvissute all’Olocausto, provenienti da luoghi diversi, che lottano fra loro, che non accettano che i mariti siano morti o che le abbiano lasciate. Così lo abbiamo fatto tradurre e lo abbiamo portato nel nostro teatro. E poi abbiamo coproduzioni: per esempio l’anno scorso con il Teatro Tedesco di Stato di Timisoara abbiamo messo in scena Sidy Thal, una pièce di Thomas Perle e Clemens Bechtel ispirata a un fatto vero, un attentato antisemita del 1938. E pure classici, naturalmente: adesso il regista del nostro teatro, Eugen Gyemant, vuole allestire Il mercante di Venezia, vorrebbe che io interpretassi il ruolo di Shylock.

Uno spettacolo da non perdere! Ma com’è oggi la situazione in Romania riguardo all’antisemitismo? In passato è stato molto forte, con le leggi razziali, di cui parlava prima, e pogrom terribili come quello di Iasi nel 1941, descritto da Curzio Malaparte in «Kaputt».
Sì, è vero, abbiamo un passato molto violento dietro di noi. Anche per questo mi colpisce che oggi in tanti libri ci sia uno sguardo meno netto sull’Olocausto, sui campi di concentramento, sulle tragedie alle nostre spalle. Ma circa l’antisemitismo la situazione è molto migliorata: il nostro rappresentante in Parlamento, Silviu Vexler, che è anche il presidente della Federazione delle comunità ebraiche in Romania, si impegna perché non sia tollerata nessuna manifestazione di antisemitismo, è lui che ha promosso due leggi importanti: la celebrazione di una giornata nazionale dello yiddish, il 30 maggio, e l’introduzione dell’insegnamento della storia ebraica nelle scuole superiori. Questo è un punto importante, anche nelle università. Ne abbiamo bisogno per preparare giovani talenti.

Com’è in generale la scena teatrale in Romania?
Molto viva, ci sono tanti gruppi interessanti: hanno una voce, sono bravi. Capita spesso che le nostre compagnie siano invitate all’estero, a Parigi, Avignone, Edimburgo. Le cose non stanno più come trenta o quarant’anni fa, quando viaggiare era un sogno. Adesso è facile. Certo, c’è chi si lamenta: questo non va, quest’altro non va, come se fossimo i nostri peggiori nemici, ma rispetto a un tempo, il quadro è ben diverso. Semmai il problema sta nella differenza tra chi abita a Bucarest o a Timisoara, Cluj, Iasi, insomma, a chi ha accesso a questa scena culturale, e chi non ha altro che la tivù e Facebook. Anche per questo, con il mio compagno Claudiu Istodor e nostro figlio Tudor (pure lui attore come gli altri due miei figli), abbiamo fatto un esperimento, una scuola estiva di teatro in una località piccolissima, Maderat, nella regione di Arad. È stato negli ultimi giorni di agosto e il titolo è Arta-N Vie, un gioco di parole, vuol dire «Arte in vigna» e «Arte risorta», e visto che il corso si è tenuto in una vigna, almeno la prima parte è vera.

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