Srebrenica in bosniaco significa «terra d’argento». Argentaria, infatti, è il suo nome latino. Molto prima di diventare epicentro di uno dei più spaventosi eccidi della storia d’Europa, Srebrenica era conosciuta per essere un borgo di villeggiatura di quella che fu l’Ex-Jugoslavia. Un piccolo paese termale, sperduto fra le montagne bosniache e noto fin dall’antichità per le sue miniere di argento. L’anno prossimo si ricorderanno i 30 anni del massacro qui perpetrato dalle truppe serbo-bosniache del generale Ratko Mladic che sterminarono più di 9000 civili bošnjaci in fuga da Srebrenica verso Tusla, in poco meno di tre giorni.

Ogni anno, dal 2004, una marcia lo ricorda: si chiama «Marš Mira» – marcia della pace – e ripercorre al contrario i quasi 100 km di questa fuga disperata di civili verso una salvezza che si trasformò in eccidio. La marcia si conclude, dopo tre giorni di cammino, nel memoriale di Potacari, di fronte all’ex-edificio del l’UNPROFOR, centro di comando ONU che avrebbe dovuto proteggere i civili in fuga; e non l’ha fatto. Come del resto ricorda la scritta di un murales esposto in mostra proprio in quello stesso edificio, oggi centro espositivo: UNhelpful. «Mio padre fu uno dei pochi sopravvissuti a questa marcia disperata; mio nonno invece non ce l’ha fatta, ma non è ancora stato seppellito al memoriale di Potocari. Del suo corpo abbiamo solo pochi resti, essendo stato spostato in più fosse comuni».

Ado Hasenavic ha 38 anni ed è l’ideatore di «Silver Frame», il primo Festival del Cinema ad essere organizzato qui, a Srebrenica. Regista, si è formato in Italia al Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma, il suo primo lungometraggio, prodotto da Palomar e intitolato My father’s diaries, è stato presentato, quest’anno, a Visions du Réel a Nyon. È un lavoro sulla storia del padre Bekir che, nel 1992, scambiò una moneta d’oro per una videocamera ed iniziò a filmare la vita quotidiana a Srebenica durante la guerra insieme ad una troupe improvvisata con altri due amici. Con il nome di Dzon, Ben & Boys filmeranno, quasi per gioco, un documento importantissimo della storia del conflitto di quegli anni. Ado rimonta le immagini girate dal padre; legge i suoi diari e attraverso il racconto della madre Fatima, ricostruisce la storia della marcia della morte e del modo attraverso cui Bekir riuscì a salvarsi.

È inevitabile: la storia di Srebenica obbliga ad un continuo lavoro di scavo sulla memoria. Il rischio, però, è quello di rimanerne accecati. «Con Silver Frame ho voluto provare un azzardo, simile alla mossa del cavallo negli scacchi. Si scavalca l’ostacolo e si prova ad andare avanti. Srebrenica, giustamente, ogni luglio ricorda il vortice di follia sanguinaria che l’ha travolta. L’ho fatto anche io, del resto, con il mio primo lungometraggio. Ed era un dovere non solo verso la memoria di mio padre; ma per la storia della mia comunità. Il problema è che questa ferita ancora non si rimargina: come sai, mancano più di 1000 corpi da seppellire, fra cui quello di mio nonno. In più, una parte della comunità Srpska continua a negare quanto accaduto. Ma non possiamo fermarci a questo. Non possiamo essere permanentemente in ostaggio di un passato prossimo così soverchiante. Il Festival del Cinema si chiama Silver Frame per ricordare che questo territorio ha una storia lunga, millenaria. Se si scava, qui intorno, sottoterra, si trovano sì i resti dei corpi seppelliti nelle fosse comuni, ma anche piccole pepite d’argento. Come ben sapevano gli antichi romani. E l’argento è un metallo prezioso perché sembra un frammento di luce, proprio come un fotogramma cinematografico. E con il cinema, qui, possiamo di nuovo riaprire la partita del futuro».

La prima edizione di Silver Frame si è tenuta dal 15 al 17 luglio. Il festival è dedicato ai cortometraggi ed è organizzato in più sezioni: la prima è internazionale; il progetto editoriale prevede che ogni anno cinque selezionatori di Festival di prim’ordine – quest’anno sono stati coinvolti Cannes, con Wim Vanacker; il Sundance con Ana Souza; Venezia con Carla Vulpiani; il Sarajevo Film Festival con Asja Krsmanovic e Alice nella Città con Niccolo Gentili – scelgano un cortometraggio a testa che verrà presentato in concorso. Una seconda sezione è dedicata invece a giovani filmakers provenienti da tutti gli Stati della Ex-Jugoslavia; mentre una terza, organizzata insieme al Festival Cinema e Ambiente di Avezzano, ha come tema la crisi ambientale. «Non ho voluto che il Festival si occupasse della memoria di quanto accaduto a Srebrenica. La scommessa è un’altra: dobbiamo ragionare sul futuro affrontando due problemi specifici: il primo è comune a tutti ed è la crisi ambientale; il secondo, invece, riguarda le nuove generazioni che stanno crescendo negli Stati di quella che fu la Ex-Jugoslavia. Dobbiamo ricostruire i ponti fra di noi, quei ponti che sono stati spezzati negli anni Novanta; dobbiamo ambire ad un nuovo orizzonte culturale comune. Per questo anche i membri della giuria ogni anno proveranno, oltre che dalla Bosnia, da uno dei nuovi Stati balcanici della regione».

La giuria di quest’anno, composta da Cecile Devillers (Belgio), Camille Daeleman (Belgio), Kiraç Umaç (Turchia), Emina Djulbic (Bosna i Hercegovina), Omer Elmazbegovic (Serbia) e Blanche Delori (Francia), ha premiato come miglior regista l’italiana Margherita Giusti, co-fondatrice del collettivo Muta Animation, e selezionata con il bel cortometraggio di animazione Meatseller; mentre ha ottenuto una menzione speciale il montenegrino Ivan Bakrac con Let the Dewy Flowers Bloom.

Oltre alle proiezioni, «Silver Frame» ha organizzato insieme al Forum internazionale di solidarietà «Emmaus», un workshop di film-making aperto ai giovani studenti coinvolti nel progetto di cooperazione. «La Bosnia – ma è un discorso che vale un po’ per tutto l’Occidente – non si trova certo in un momento storico tranquillo: poche settimane fa, una milizia serba ha fatto un corteo dimostrativo proprio a Srebrenica. E ancora quest’anno, l’11 luglio, nella strada che porta da Srebrenica al memoriale di Potacari, le famiglie dei militari cetnici hanno esposto fuori dalle case, davanti al corteo della «Marš Mira», le foto dei propri parenti uccisi. Senza capire che c’è una bella differenza fra essere dei militari morti in guerra o dei civili in fuga massacrati da quegli stessi militari che hanno poi nascosto i corpi delle vittime in fosse comuni. Può sembrare un gesto minuscolo. Ma organizzare un piccolo Festival come Silver Frame ha lo scopo preciso di rompere quest’accecamento. Perché in questa storia c’è sofferenza e dolore per tutti e la mossa del cavallo è l’unica su cui possiamo scommettere».