Un viaggiatore che da Bucarest, e dalla grande pianura – il Baragan, la steppa rumena –, guardi ad oriente immaginando la Marea Neagra, lo farà leggendo quel che da qui raccontarono, prima Patrick Leigh Fermor (Fra i boschi e l’acqua, Adelphi, 2013) e poi Claudio Magris (Danubio, Garzanti, 1990). Entrambi arrivarono in questa Romania d’oriente al termine dei loro viaggi: Fermor si ripromise di visitarla meglio un giorno, con l’idea di farsi un’idea più precisa dei luoghi dove avevano vissuto quei «principi dai nomi mitici: Stefano il Grande, Michele il Valoroso, Mircea il Vecchio e poi Vlad l’Impalatore e l’antica dinastia dei Basarab…e poi Serban Cantacuzino, Dimitrie Cantemir e Constantin Brancoveanu», e dove il Danubio raggiunge il Mar Nero con «mille miglia di canneti».

Magris è – col viaggiatore – più generoso per esempio quando, raggiunta la costa del Mar Nero (245 chilometri di costa rumena, con a sud la Bulgaria e a nord l’Ucraina) ci dice delle colonie greche sul Ponto Eusino come Tomis (oggi Costanza), Callatis (oggi Mangalia) e Histria. «Cammino fra cardi e spighe selvatiche, fra i resti del tempio di Zeus e della basilica, porte massicce e colonne struggenti nel tramonto come steli, terme mute. La sera diafana e ferma s’inarca su questa tomba dei secoli, qualche biscia sparisce fra i sassi e gli uccelli stridono sui muri sbrecciati; i ruderi scendono a un mare rossastro di alghe e fondali».

Su questo mare che è sì, ancora oggi rossastro, in cielo ormai si vedono scie luminose di missili sganciati a qualche centinaio di chilometri di distanza, in territorio ucraino. A Costanza i ragazzi arrivano da tutta Europa per la musica techno di Sunwaves, sulla striscia di Mamaia Ceausescu volle una villa estiva con piscina rivestita di mosaici d’oro e lapislazzulo e sulla spiaggia di Vama Veche, al confine con la Bulgaria e oggi sfigurata dal turismo di massa, negli anni sessanta si rifugiavano i dissidenti del regime. Siamo in Dobrugia, quella parte di paese che affaccia sul Mar Nero, duecentottanta chilometri di costa chiusa fra l’Ucraina a nord e la Bulgaria a sud.

È anche il luogo in cui il Danubio, con un delta di 3446 chilometri quadri fra i più grandi d’Europa, si getta nel Mar Nero attraverso i tre grandi canali di Chilia, Sulina e Sfintu Gheorge. Che poi in realtà sono infinite le vie di navigazione medie e minuscole, gli stagni e i laghi, gli approdi disseminati sull’acqua in questo paesaggio che si trasforma continuamente, protetto e tutelato ma in alcuni punti abbandonato e ipercostruito, in qualche modo sopravvissuto a una lunga storia fatta di dominio dell’Impero Ottomano (dal 1416 per cinque secoli: i nomi dei villaggi sono Babadag, Murighiol, Mahmud e i minareti spuntano qui e là). Il territorio tuttavia non doveva poi essere così controllato dai turchi perché era – e qui ancora Magris – «regno di irregolari e fuggiaschi, una terra di nessuno, rifugio dei senza-legge provenienti da ogni parte…», «una giungla di uomini di ogni razza, turchi e caucasici, zingari e negri, bulgari e valacchi, russi e serbi, marinai e delinquenti…».

Oggi è patrimonio preziosissimo – come dice Iliuta Goean, guida storica del delta, laureatosi a Bucarest in giurisprudenza, da anni ha deciso di presenziare, tutelare e far conoscere il delta – il fruscio delle fronde dei salici nell’acqua, i giunchi, i carici e le tife dei canneti, le ninfee (e sulle rive i frassini, gli ontani, i pioppi) e le 135 specie di pesci alcuni dei quali migratori come lo sgombro e lo storione (oltre al luccioperca, la carpa, la reina, il pesce siluro).

Al timone della piccola imbarcazione, districandosi nei meandri del delta, ci porta dove i pellicani (e qui resistono quello bianco, Pelicanus Onocrotalus e quello riccio Pelicanus crispus) cercano le termiche per faticare meno in volo: hanno nidificato e si muovono in gruppo in cerca di cibo, volano bassi tutti insieme si abbassano per vedere se c’è cibo e con l’aiuto dei cormorani, che si tuffano facendo venire a galla i pesci, lo raccolgono e portandolo nel becco nella zona protettissima nel nord del Delta dove sono i nidi. Iliuta ci dice che un tempo i pellicani che nidificavano erano milioni: oggi sono circa settemila. Oltre a loro vivono qui gru, cicogne, anitre, oche, aquile folaghe e gruccioni con le rotte delle loro migrazioni: la pontica, la sarmatica e quella carpatica. Durante la navigazione una coppia di grandi cani randagi corre sulla riva in cerca di cibo, un barcone fatiscente ormeggiato sembra ospitare la festa di una rumorosa comunità in vacanza mentre passiamo in larghe zone di ninfee dove l’acqua è trasparente: sono water lilies, leggermente rosate col cuore giallo e fanno da filtro naturale all’acqua.

Un pescatore solitario posiziona pali nell’acqua, l’imbarcazione della polizia frontaliera è ormeggiata lungo il canale e alcune barche raccolgono i rifiuti passando vicino ai piccoli villaggi sull’acqua.
Come Mila 23, il paese che, nascosto nel cuore del delta, dette i natali ad Ivan Patzaichin: atleta olimpico di canottaggio (quattro medaglie d’oro e tre d’argento) cresce andando in canoa nei canali e tutti conoscono la storia di quando – pur avendo un remo rotto – ottenne la vittoria a Monaco nel 1972.

Umile ed amatissimo era di origine lipovena come molti abitanti del delta (a Jurilovca come a Letea e anche a Mila 23). Arrivati dalla Russia nel settecento, in fuga per motivi religiosi ed espertissimi pescatori sono (sempre Magris) «il popolo del fiume, vivono nell’acqua come i delfini». Ovunque – sulle facciate e lungo le staccionate – è loro l’azzurro, in contrasto coi tetti di paglia stondati e anneriti dalle intemperie. Con un po’ di fortuna si riesce ad ascoltare le donne del coro che, talvolta in costume tradizionale come a Jurilovca, intonano canti russi, ucraini e rumeni. Mentre in paese un’anziana signora ci fa entrare dal cancelletto – azzurro – per mostrare orgogliosa il suo meraviglioso giardino fiorito, una vicina affumica il pesce in un bidone e nell’aria si sente il profumo della zuppa di pesce che bolle nei grandi pentoloni di rame. È la ciorba del pescatore del Danubio: il pescato del giorno come reine carpe e lucci (in Italia poco amati ma prelibatezze in Dobrogea) tagliato in grandi pezzi, con patate pomodoro e cipolla che viene poi servito con una irrinunciabile salsa bianca all’aglio, da sciogliere nel brodo.

Andando verso nord ci si imbatte in alcuni resort di lusso ed alcuni hanno addirittura l’area di atterraggio per elicotteri, jacuzzi all’aperto, piscine e tavolinetti coi narghilè a disposizione dei clienti, fino a che si arriva a Tulcea. Qui, sul lungofiume, i condomini fatiscenti di epoca comunista si alternano a grandi alberghi in vetro e in lontananza si vedono grandi cantieri navali sulle sponde del fiume. La ex-sede della Shipping Sabin, a forma di prua di nave, sembra aspettare una nuova destinazione d’uso e nelle taverne sono serviti giganteschi rombi d’acqua dolce, cotti al forno. E poi, su in cima quasi in Ucraina, c’è Sulina.
Dimenticata oggi dal turismo e bombardata durante la seconda guerra mondiale, ha un cimitero multiculturale in cui è ricordato un famoso pirata greco, alcuni marinai inglesi annegati in quelle acque, principesse e funzionari e, come vestigia di un glorioso passato, si erge il palazzo neoclassico costruito per ospitare la sede della, allora, Commissione del Danubio.

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Antichi monasteri, manieri di caccia e leggendarie atlete
Uscendo da Bucarest, avviandosi verso il nord della Valacchia, per precisione in Muntenia, ci si immerge in una campagna verdissima e rigogliosa interrotta ogni tanto da campi di papaveri e di peonie. Qui sprofondato, e con perigliosa strada d’accesso, si trova il vecchio monastero di Poiana Marului. Assi di legno antichissime e scure lo rivestono sia all’interno che all’esterno e la scoloritura delle lunghe figure di santi è annerita da pioggia e neve di inverni lunghi, umidi e freddi. La cupola e le pareti interne hanno invece mantenuto i loro colori originari – rosso, grigio, nero, viola – e quel che nella penombra luccica è l’oro delle aureole con la grande iconostasi al centro. All’entrata c’è un bancone con, in vendita, pochi prodotti del monastero: unguenti, polline, sottili candele in cera d’api. Non è lontana, nei pressi di Râmnica Sarat – molte qui le battaglie fra Valacchi e impero Ottomano – nel distretto di Buzau, una riserva naturale dal panorama lunare in cui le fuoriuscite di gas naturale hanno creato vulcani di fango misto a argilla, metano e sale ma anche cupole di sale e fiamme sempre attive: si racconta di forze magnetiche, persone scomparse e rinvenimento di oggetti dei quali non si è mai capito il senso.

Lungo la strada si incontrano cani randagi (annoso problema rumeno quello del randagismo), nei cortili di casa le mucche pascolano tranquillamente come fossero animali da compagnia, alcune piccole stazioni di preghiera tipo altarini si alternano a ragazzi che conducono poche pecore.
Alcuni manifesti di candidati politici sono attaccati – specie di endorsement – direttamente sui muri delle abitazioni: «Qui, in questa casa, votiamo lui». «I politici – ci viene spiegato – visitano i paesini, regalano un litro d’olio e di zucchero facendo promesse elettorali e chiedono in cambio di poter affiggere loro manifesti direttamente sulle case».

Per arrivare a Bisoca, sede dell’Associazione Zestrea Bisoceana, le strade interne sono dissestatissime. Le mani di Aura Casaru (una delle fondatrici dell’associazione volta al recupero delle tecniche tradizionali rumene), si muovono velocemente facendo colare, attraverso un tubicino di metallo, la cera bollente in piccoli ghirigori sulle uova che poi, intinte nel rosso liquido, sono quelle che si vedono sulle tavole da pranzo durante la Pasqua ortodossa (per vederne di decorate come fossero merletti occorre arrivare fino a Moldovita o a Vama a nord, in Bucovina).

Mani velocissime assemblano anche gli opinci, tradizionali calzature rumene di solito indossate sopra a calze molto pesanti e spesse di lana. Lana che spesso proviene da pecore tsigai con pelo lungo e folto: erano un tempo nei cortili di ogni casa; la loro lana veniva tinta di rosso grazie alla lavorazione della radice di rubia da cui, da sempre, si ricava il cosiddetto rosso di garanza o rosso adrianopoli. In primavera, nel giorno di San Giorgio le greggi, dopo essere state tosate, partivano per la transumanza, per tornare giù prima dell’inverno, il giorno di san Dimitri.

Ci si ferma lungo la strada da Socar, compagnia petrolifera azera, per il rifornimento ma anche per bere il famoso succo di melograno (a Goychay, in Azerbaigian una volta all’anno, si svolge il festival del melograno) per poi proseguire verso nord attraverso il distretto di Rancea arrivando a quello di Bacau; velocemente, a Onesti, lo sguardo cade sul memoriale dedicato a Nadia Comaneci: niente di particolare il monumento, ma nella memoria collettiva, Nadia, i 14 anni e il suo 10 alle Olimpiadi del 1976, Nadia pedina del regime, Nadia che fugge in America, sono immagini indelebili.

Poco più in là compare il castello dei nobili Ghika che, nato per essere maniero di caccia e costruito alla fine dell’ottocento, fu per anni proprietà della famiglia che ebbe governatori sia in Valacchia che in Moldova e fra loro primi ministri, esploratori e cacciatori. Uno di loro lo perde poi al gioco e il castello è sanatorio, orfanotrofio e ospedale.

Spoliato di tutto, ha oggi pareti verde bottiglia con, all’ingresso, un grande palco di cervo e vetrate multicolori di epoca non meglio identificabile. L’atmosfera è straniante, uno di quei posti dove non si riesce a cogliere quel che è accaduto. Andando verso la principale città moldova – Iasi – si trova una delle fondazioni dedicate a George Enescu (a Bucarest è il grande palazzo Enescu-Cantacuzino). Soprattutto e suo malgrado, amatissimo per il virtuosismo del suo violino, Enescu, nato al confine ucraino fu grandissimo compositore: anni di studio a Parigi con l’amico Alfred Cortot, molti viaggi oltreoceano e Yehudi Menuhin fra i suoi allievi. Qui a Tescani, piccolo villaggio vicino a Bacau, finisce, nel 1931, di comporre Oedipus opera n. 23 dedicandola alla moglie Maruca Cantacuzino: furono 12000 i suoi libri bruciati negli anni in cui, sotto Ceausescu, la villa divenne un pollaio. Il famosissimo Palazzo di Sturdza è ancora chiuso per restauro ma monasteri ortodossi anche recenti nelle campagne abbondano e se ne incontrano di continuo. Come quello di Florescu con un monaco brillante ed allegro che con entusiasmo mostra la propria effigie ritratta in un affresco in chiesa ed invita a mangiare le ciliegie dagli alberi, in questa stagione stracarichi di frutti. Ma forse, più che qui, varrà davvero la pena allungare il viaggio fino alla vicina Bucovina, e fermarsi per esempio alla chiesa del non più esistente Monastero di Voronet per ammirare l’impressionante Giudizio universale affrescato all’inizio del XVII secolo sulla facciata esterna del nartece. Su quello che ormai è conosciuto come azzurro Voronet fatto di lapislazzulo frantumato, sono animali che sputano arti, angeli che suonano antichi strumenti romani, facce di Turchi e Tatari e la Gheenna, il fiume di fuoco.

Capitolo finale di un itinerario di viaggio lungo le pendici orientali dell’arco carpatico da sud a nord e quindi a pochissimi chilometri dal confine con la Repubblica di Moldavia è infine Iasi, il cui aeroporto è luogo dell’anima per i rumeni che lavorano in Italia e che, appena possibile, tornano a Roman, Brasov, Bacau, Piatra Neamt e Cluij Napoca, i loro paesi d’origine.

Negli affreschi all’interno dell’immenso Palatul Culturii, costruito fra 1906 e 1925 in stile neogotico, domina l’azzurro con tante stelle, i mosaici d’oro e rosso rubino rivestono le pareti e, disseminati nei tondi, sono ritratti di principi e condottieri moldavi a partire da Decebalo fino a Carlo II.

E poi, a ben guardare, entro tre nicchie medievaleggianti spuntano tre murales degli anni settanta con la Iasi artistica, storica e industriale. Poco più in là sul grande viale punteggiato dai soliti sterminati condomini voluti da Ceausescu, la Chiesa dei Tre Gerarchi: fondata dal principe/Voivoda Vasile Lupu nel 1635 è fra i capolavori dell’arte sacra moldava con pareti esterne completamente istoriate da raffinati fregi ornamentali scolpiti nella pietra bianca. Accanto poi al grande Hotel Uniri di epoca comunista, nell’angolare e magnifico Palazzo Braunstein, è allestita una piccola mostra dedicata alla Regina Maria («Maria di Romania, Regina e Artista», Palazzo Braunstein, Iasi, fino all’8 agosto). Molto amata dal popolo rumeno – tuttora chiamata Regina Marii Uniri (Regina della Grande Unione), di lignaggio altissimo (nipote di Alessandro II di Russia e della Regina Vittoria) Maria di Sassonia Coburgo-Gota, svolse attività diplomatica importante partecipando al Trattato di Versailles nel 1919. Grazie a lei si parla per la prima volta di Grande Romania per la riacquisizione, nel 1919, di Transilvania, Bucovina settentrionale e Bessarabia. Indossava spesso e con orgoglio il costume nazionale, patrocinava artisti e danzatori, senza pregiudizi si avvicinò persino alla fede Baháí. Di lei Virginia Woolf disse: «ha fatto una cosa che nessuno prima di lei ha osato fare: ha aperto la porta della corte ed è uscita a fare una passeggiata per strada. La regina Maria sa scrivere, ecco perché le sbarre sono cadute in pochi secondi(…) Grazie alla penna ha conquistato la libertà».