Mario Boccia, il respiro di Sarajevo
Intervista Coinvolto in due film, quello diretto da Fabiana Antonioli e Andrea D’Arrigo e «Sniper Alley - To My Brother» di Cristiana Lucia Grilli e Francesco Toscani, presentato in anteprima mondiale al festival e incentrato sul grande archivio fotografico digitale creato a partire dalla ricerca di un ragazzo, il fotografo racconta il suo lavoro
Intervista Coinvolto in due film, quello diretto da Fabiana Antonioli e Andrea D’Arrigo e «Sniper Alley - To My Brother» di Cristiana Lucia Grilli e Francesco Toscani, presentato in anteprima mondiale al festival e incentrato sul grande archivio fotografico digitale creato a partire dalla ricerca di un ragazzo, il fotografo racconta il suo lavoro
Si è concluso il 23 agosto il Festival di Sarajevo. Nato con ancora il conflitto in corso, il festival è diventato in breve tempo uno dei più importanti appuntamenti cinematografici della stagione, con più di 100.000 presenze e 247 film proiettati, oltre a rappresentare una fondamentale vetrina per il cinema del Sud-Est Europa.
Per la sua 30a edizione, che ha visto tra gli ospiti Meg Ryan, John Turturro e Elia Suleiman, si conferma anche una significativa presenza di film italiani, tra cui il lungometraggio I diari di mio padre di Ado Hasanovic, prodotto da Palomar, e 15 cortometraggi selezionati dalla Mostra Internazionale del Nuovo cinema di Pesaro grazie a una partnership con Sarajevo.
Al festival abbiamo intervistato il fotografo Mario Boccia, fra i protagonisti di Il Respiro di Sarajevo diretto da Fabiana Antonioli e Andrea D’Arrigo e di Sniper Alley – To My Brother di Cristiana Lucia Grilli e Francesco Toscani, presentato in anteprima mondiale e incentrato sul grande archivio fotografico digitale creato a partire dalla ricerca di un ragazzo.
Come sei venuto a conoscenza del progetto «Sniper Alley» di cui tratta il film?
Ho conosciuto il progetto di Dzemil Hodzic quando si rivolse online ai fotografi del mondo per cercare foto di suo fratello Amel, ucciso a Sarajevo il 12 maggio 1995, Amel aveva 16 anni e Dzemil quattro di meno.
Fino a quel momento avevo letto gli appelli di chi cercava notizie di persone scomparse mostrando la loro immagine più recente, ma la richiesta di Dzemil era diversa. Lui cercava un’immagine «viva» del fratello che aveva visto morire. Era qualcosa che metteva in campo altro: riguardava la vita dei sopravvissuti e di quelli che verranno, oltre a difendere la memoria di chi l’aveva persa. E riguardava anche il valore della fotografia di reportage. Nessuno pensava che avrebbe trovato la foto che cercava.
C’è una narrazione fotografica diversa tra quella richiesta dalla committenza e quella che è per te la narrazione di un conflitto? Nello specifico, se il fotoreporter Thomas Hurst afferma nel film di aver scattato foto di ragazzi quasi casualmente, come si collocano le immagini dei bambini all’interno di un resoconto di guerra?
Una foto non è mai casuale. La foto scattata da Hurst, con il sorriso ironico di Amel in mezzo agli amici e Dzemil tra di loro, non lo è. Si scatta quando qualcosa colpisce la tua attenzione. Quello che vedi dipende da chi sei. Può essere un dettaglio, un’azione, una relazione che inizia da uno sguardo.
Io ho fotografato quello che ho voluto e potuto. A volte non ho scattato per pudore, ma non giudico chi lo ha fatto.
Ho sempre lavorato a prescindere dalla committenza che può essere disgustosa. Se «la linea» del giornale è quella di enfatizzare lo scontro etnico e religioso, sono quelle le foto e gli articoli che commissionano e che saranno pubblicati.
Ti faccio un esempio. Avevo la foto di una bambina che sorrideva davanti a una vetrina crivellata di proiettili. Nella redazione un quotidiano importante mi dissero: «peccato che ride, non c’ è dramma» Eppure, per me, quel sorriso irriducibile era un simbolo fortissimo di resistenza civile. Per questo scelsi quella foto come copertina mio primo libro di fotografie, pubblicato a guerra in corso. (ndr Slavi del sud. Due anni nella ex-Jugoslavia Editori Del Grifo). Oggi che la pace e il futuro del pianeta sono a rischio, più di quanto non lo fossero allora, è facile constatare come «la gestione» delle notizie sia totalmente politica. Stretta tra mercato e propaganda l’informazione muore.
Nel film vediamo come le foto scattate dai fotografi internazionali, da testimonianza e racconto ‘per chi non sa’, assumono un valore molto profondo e intimo. Succede spesso? C’è una foto che per te assume lo stesso valore affettivo personale?
Una cosa che ho fatto spesso è restituire foto ai soggetti ripresi. Stampe che entravano negli album di famiglia o venivano incorniciate. I sorrisi ricevuti in cambio sono un ricordo prezioso.
Una foto alla quale sono molto legato l’ha scattata una bambina con la mia macchina fotografica. Tutto nacque da uno sguardo e una foto. Tornai spesso a trovarli e l’ultima volta la madre era stata uccisa da una scheggia di granata. La figlia più piccola prese una sua foto e volle che quella stampa, con sua madre che sorrideva, fosse tra me e lei mentre la sorella più grande scattava.
Tu sei qui al festival anche per il film «Il respiro di Sarajevo» in cui offri una preziosa testimonianza dell’assedio, cosa ti ha portato a documentare e conoscere così profondamente le guerre nei balcani?
Il legame è facile da spiegare: la Jugoslavia, negli anni ‘60, era il luogo delle mie vacanze da bambino, con la mia famiglia. Per i luoghi bellissimi, ma anche per scelta precisa di mia madre, che era stata partigiana. È un legame forte, che mi fa tornare.
Com’è fotografare Sarajevo oggi?
Beh, che dire, fotografare Sarajevo oggi è facile perché nessuno ti spara più. Come allora, però, è difficile uscire dagli stereotipi. Credo che le foto dei turisti siano paradossalmente più sincere di quelle di alcuni professionisti. Alla ricerca ossessiva di buchi di pallottole sui muri, perdono di vista la bellezza, ma anche i problemi veri di un paese che seguita a spopolarsi. Sguardi superficiali che ignorano la complessità, la storia e la cultura di quel paese. Era spesso così, anche durante il conflitto. «Questo non è un mestiere per cinici», diceva Ryszard Kapuscinski, ma nemmeno per ignoranti.
Tenendo conto delle debite differenze storico/politiche, vedi delle correlazioni con i conflitti attuali?
Tutti i conflitti sono diversi tra loro. Eppure sono anche tutti uguali, dal punto di vista delle vittime. Per capire le ragioni di un conflitto, bisogna analizzare le fonti e gli scenari internazionali, rifuggendo sempre dalla retorica delle opposte propagande. Ma per ripudiare la guerra bisogna guardarla dalla parte degli ultimi. Nessuno deve morire in guerra, o per fame, nel mondo. Aggiungo una nota, un aneddoto sull’uso delle fotografie nella propaganda di guerra. Nel 1991, all’inizio del conflitto tra Serbia e Croazia, nei rispettivi uffici stampa che accoglievano i giornalisti circolava molto materiale, anche fotografico, che rievocava i massacri compiuti dai «Cetnici» (nazionalisti serbi) o dagli «Ustascia» (nazionalisti croati) durante la seconda guerra mondiale. Mi è capitato di trovare la stessa foto (di una fossa comune) sia a Zagabria che a Belgrado, con un’attribuzione opposta. Esattamente com’è successo (e succede) in Italia, quando una foto di una fucilazione di civili istriani eseguita da militari italiani è stata spesso usata per manifesti dedicati alla «giornata del ricordo» delle vittime italiane gettate nelle foibe. Il metodo è lo stesso.
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