Le guerre scaturite dal progressivo smembramento della Jugoslavia hanno occupato uno spazio importante nell’informazione occidentale per anni, fintanto che quell’Occidente era interessato a raccontare quei conflitti nel modo che più gli faceva comodo, drammatizzandone certi aspetti, minimizzandone altri, mentre preparava il proprio piano per il futuro dei Balcani. Dal vasto album degli episodi di violenza, quello maggiormente impresso nell’immaginario collettivo insieme al massacro di Srebrenica resta il lungo assedio di Sarajevo, epitome di un dramma che ha sconvolto per sempre ila vita di intere generazioni. E se nei media oggi i Balcani, ancora attraversati da lacerazioni mai superate, non trovano più posto, chi ha vissuto quegli anni ne parla come di un tempo vicino, vicinissimo, nonostante la Bosnia sia diventata in molti casi il ricordo di una terra lontana, soprattutto per chi l’ha lasciata negli anni ’90.

Dagli anni della guerra divenne inevitabile l’esodo dalla Bosnia-Erzegovina di migliaia di serbi come di bosniaci: parte di questi ultimi arrivarono nel biellese, dove la comunità islamica bosniaca ha fondato prima l’Associazione Culturale Bosniaca e, dal 2019, presso Gaglianico (BL) c’è anche una sede di Dzemat, afferente alla CIBI – Comunità Islamica dei Bosniaci in Italia. Adesso la comunità islamica bosniaca di Biella ha il suo imam, Edin Féhric e la sua moschea. Alcuni dei suoi componenti hanno ricordato, a trent’anni di distanza, il dolore che hanno vissuto o a cui hanno assistito.

Il padre di Selma è morto in guerra nel 1992, e lei, che è nata nel 1991, nemmeno se lo ricorda. A lei, di un padre, sono rimasti solo il cognome e l’assenza. Suo padre è morto all’inizio della guerra bosniaca, quando iniziò a capitolare il multiculturalismo che aveva caratterizzato Sarajevo per secoli. Torlak di Sarajevo, che ha fatto la resistenza sotto il mirino dei cecchini e che, quindi, a differenza di Selma il conflitto non riesce a dimenticarlo, quando ricorda la sua città prima del ’92, ricorda il suo volto accogliente. L’accoglienza della gente di Sarajevo era ciò che rendeva unica e amabile la sua città. Dentro una capitale che si era sviluppata attorno alla convivenza pacifica tra musulmani, ebrei, serbo-bosniaci ortodossi e croato-bosniaci cattolici, era normale essere aperti e accoglienti verso tutti. Oggi Selma ha un marito bosniaco, è tornata a Tuzla per lui, perché lei è cresciuta in Italia e la Bosnia di ieri che racconta Torlak, non la vede più. Oggi Selma lo dice chiaramente: per il suo paese, lei non lascerebbe mai morire suo marito, non lascerebbe i suoi figli senza un padre: lei il patriottismo di suo nonno, che ha perso un figlio per la sua Bosnia, non lo ha ereditato. Tra nostalgici dell’ex Jugoslavia e tra chi le sue contraddizioni se le ricorda tutte, la discussione si apre ancora.

Torlak dice che quando c’era la Jugoslavia, in Bosnia, gli operai erano signori, che c’erano dieci giorni di mare gratis per tutti, che tutti avevano la casa e i senzatetto non esistevano a Sarajevo. Si poteva dormire tranquilli nei parchi nella Bosnia-Erzegovina jugoslava, per quanto era sicura. Ma Alija ribatte a questa nostalgia. Fino al 1974 era proprio quello stesso governo a non riconoscere i musulmani jugoslavi.

Negli anni ’90 la Bosnia-Erzegovina è stata attraversata dalla violenza ben oltre Piazza Markale e Srebrenica, le grandi tragedie cui è stata concessa una strumentale risonanza politica e mediatica globale. Tantissimi dei mali che hanno dovuto subire i bosgnacchi non sono mai nemmeno arrivati nei tribunali. Sono tantissimi i ricordi di crimini giornalieri che costellano le storie famigliari dei sopravvissuti.

La sorella di Dzevad è morta a diciannove anni, nel 1995, nei pressi di Zvornik, al confine con la Serbia. Era nata nel 1965 ed era sunnita: le hanno sparato alle gambe alcuni compagni di scuola serbo-bosniaci che lei conosceva, e che non hanno mai pagato nonostante la ragazza sia poi morta dissanguata. Ed è questa convivenza coi dolori e coi tabù ad alimentare la frattura etnica che si è aperta negli anni ’90 a Sarajevo e che non si è più chiusa.

Davanti alla loro moschea, i bosgnacchi del biellese rispondono di no, che la loro ultima guerra è sospesa, ma non è mai finita. A loro hanno dato niente alla fine del conflitto, se non un paese con un governo a tre teste e che chiamano mostruoso, un governo che fa penetrare la corruzione postbellica in ogni sua fessura.

Sono tutti d’accordo in questa stanza italiana: i bosgnacchi si sono sentiti traditi dall’Occidente intero e dalle istituzioni internazionali. In Bosnia-Erzegovina, prima del 1992, convivevano tre etnie principali e tre religioni monoteiste. Nel 1995, a Dayton (USA) furono decise le sorti di un paese dove finirono i bombardamenti e gli assedi. Nel 2024, però, i musulmani guardano ancora quel loro paese dove hanno il passaporto bosniaco e dicono che qualche grattacielo in città ha sostituito le macerie ma che, comunque, le divisioni etniche restano e sono tangibili. Amra dice che questo, in Bosnia, per lei è normale, perché per lei è stato così sempre, da quando ci va ogni anno in estate, perché Amra è nata in Italia nel 2004 e la sua Bosnia è stata ed è diversa da quella di sua madre, da quella dei suoi genitori, da quella di Torlak di Sarajevo, da quella di Dzevad e da quella di sua sorella, che adesso giace tra le tantissime sepolture del vasto cimitero che sormonta la città, corona ambigua che inchioda i cittadini al ricordo della guerra. Amra è la figlia di una donna che ha perso il marito in guerra nel 1992 e di un uomo che ha combattuto al confine con la Serbia, ed è la sorella di Selma, ed entrambe non ricordano le bombe ma lei, bosniaca e italiana, sente di appartenere come i suoi alla storia di Sarajevo.