Editoriale

Il mito tunisino: democrazia senza giustizia sociale

Migranti subsahariani a Sfax svuotano le loro case per sfuggire alle violenze foto Getty Images /Imed HaddadMigranti subsahariani a Sfax svuotano le loro case per sfuggire alle violenze – Getty Images /Imed Haddad

Primavera mancata Dal 2011 la Tunisia ha inanellato conquiste: elezioni libere, una costituzione tra le più progressiste del mondo arabo, parità di genere, matrimonio civile. Da cui il cortocircuito liberal: urne e diritti civili come massima espressione di un sistema democratico. Una narrazione che esclude la questione focale invocata dalla rivoluzione: uguaglianza socio-economica. E Sfax, che ieri manifestava contro lo stato, oggi scende in piazza per cacciare i migranti. Quale stabilità cresce sulla povertà?

Pubblicato più di un anno faEdizione del 7 luglio 2023

La violenza feroce di una parte della popolazione di Sfax contro i migranti subsahariani riesce dove tante analisi hanno fallito: sfatare il mito della Tunisia come unica rivoluzione araba riuscita. Un mito che ha travisato la realtà del processo democratico intrapreso dal paese nordafricano grazie alla rivoluzione dei Gelsomini, deflagrata nel dicembre 2010 tra le fiamme accese da Mohamed Bouazizi, ambulante di Sidi Bouzid, profondo entroterra tunisino. Con quelle fiamme si uccise, di fronte all’ennesimo abuso della polizia, nel simbolico e disperato tentativo di togliere all’autorità il monopolio della violenza.

Dalla Tunisia la rivolta si propagò al Nord Africa, al Golfo, al Levante. E dalla Tunisia partì un’apparente democratizzazione narrata come un successo.

In parte lo è stato, a sancirlo una cerimonia a Oslo nel 2015: il Nobel per la Pace assegnato al «Quartetto» – lo storico sindacato Ugtt, la Confindustria, la Lega per la difesa dei diritti umani, l’Ordine nazionale degli avvocati.

A DIFFERENZA dei paesi vicini dal 2011 intrappolati in controrivoluzioni e guerre civili, la Tunisia ha inanellato piccole grandi conquiste: elezioni libere, una costituzione tra le più laiche e progressiste del mondo arabo, riforma del diritto di famiglia, parità di genere, matrimonio civile.

Da cui il cortocircuito liberal: urne e diritti civili come massima espressione di un sistema intrinsecamente democratico. Una narrazione che esclude la questione focale invocata dalla rivoluzione dei Gelsomini: giustizia e uguaglianza socio-economica, fine dell’autoritarismo politico-economico dello stato.

Quella democrazia in Tunisia non è mai nata. La struttura piramidale della società è intatta, affatto scalfita dalla pioggia di miliardi di dollari che su Tunisi sono piovuti da occidente, Ue, Usa, Fmi.

La pioggia si è asciugata lasciando sul selciato inflazione, disoccupazione, carenza di cibo, medicine e carburante, esclusione dell’entroterra più povero con la costa che ingurgitava gli investimenti infrastrutturali a favore del turismo internazionale.

I tunisini si sono accorti ben prima di noi che la democrazia non era mai arrivata. Hanno manifestato la disillusione in tanti modi, solo apparentemente contraddittori: ingresso in forze nelle fila dei movimenti islamisti in cambio di un salario (la prima «cittadinanza» dei foreign fighters dell’Isis è la tunisina); emigrazione verso l’Europa; proteste di piazza.

Negli anni non sono mai cessati scioperi, scontri con la polizia, attivismo sindacale per ottenere servizi e salario. Ovunque, a Tunisi, Kasserine, Jebeniana, Sidi Bouzid, Mornag.

Volevano la loro primavera, la risposta è stata austerity sul fronte esterno e autoritarismo su quello interno.

Il terzo prestito del Fmi, 1,9 miliardi di dollari, è appeso al sì di Tunisi a un pacchetto lacrime e sangue: taglio dei sussidi su pane e carburante (con impatto a cascata sul prezzo degli altri beni), riduzione radicale dei dipendenti pubblici e dei loro stipendi, ristrutturazione delle aziende statali (privatizzazioni), aumento dell’Iva, svalutazione della moneta per attirare investimenti stranieri. Non proprio la strada verso la giustizia sociale. Chiedete a Egitto, Marocco, Giordania.

IN CASA, le libertà conquistate si sono via via ristrette, come spesso accade sfruttando lo spettro del terrorismo: dal 2015 la Tunisia è in stato di emergenza con l’obiettivo palese di contrarre lo spazio pubblico del dissenso, fino all’apice del golpe istituzionale del presidente Saied.

La primavera non è arrivata, soffocata dalla letale simbiosi tra autoritarismo e neoliberismo. In Tunisia assume le sembianze delle luci e dei grattacieli sul lungomare, le vie per turisti e i cafè a ogni angolo, l’allucinazione neoliberista che offusca la miseria del popolo tunisino. Che oggi devia la sua rabbia in una guerra tra poveri: se Sfax, fino a poco fa, scendeva in strada contro l’élite politica, oggi lo fa per cacciare i migranti, intossicata dalla retorica razzista e nazionalista di Cartagine.

È il paese della mancata primavera, del mito della democrazia che contrappone diritti civili a diritti sociali e della leggenda della «stabilità» a difesa dell’Europa: baluardo contro il terrorismo e frontiera esternalizzata di Bruxelles.

Quale stabilità cresce sulla povertà?

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