«La prisonnière de Bordeaux», gioco dell’utopia al femminile
Cannes 77 Alla Quinzaine il film di Patricia Mazuy «La prisonnière de Bordeaux». Il rapporto fra le due protagoniste, Huppert e Herzi, sospeso tra verità e finzione
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LA CONDIVISIONE degli spazi domestici, la presenza gioiosa e caotica dei bambini che invadono la grande casa, una cena notturna a base di uova sode sono altrettanti passaggi di piccola felicità. E però tutto questo non basta a diradare l’ambiguità: i dialoghi scritti da Mazuy con la collaborazione di Emile Deleuze sono perfetti nel sottolineare come i sentimenti si intrecciano alla convenienza e come la coabitazione produca vantaggi reciproci alle due donne. E ulteriori sospetti vengono insinuati dal magistrale gioco di ombre che Huppert imbastisce con il suo personaggio, suggerendo possibili ribaltamenti e perverse deviazioni.
L’OMBRA di una svolta alla Chabrol (che a Huppert ha offerto abbondanza di criminali ambiguità) aleggia per un po’ sul film e fa sì che, quando il rapporto tra le due donne precipita, lo spettatore si trovi a fare i conti sia con i suoi ingiusti sospetti che con la giusta ammissione che la lotta di classe si fa con i mezzi che sono a disposizione. I ricchi rimangono ricchi (e arroganti e, in una larga inquadratura che ritrae Alma circondata dai suoi amici a celebrare la imminente scarcerazione del marito, grottescamente ridicoli) e ai poveri non resta che usare le armi – legali Alla fine entrambe le donne – Mina più Alma – finiscono per obbedire agli imperativi della loro identità sociale e il film, film solidissimo e molto ben funzionante, lascia gli spettatori tra il dispiacere del sogno infranto e la tentazione al realismo un po’ cinico di chi sa come vanno le cose.
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