Visioni

Isabelle Huppert regina ad Almada

Isabelle Huppert regina ad AlmadaIsabelle Huppert – foto di Lucie Jansch

A teatro si è concluso il trentaseiesimo festival, piattaforma per un confronto tra la scena europea e quella degli altri continenti

Pubblicato più di 5 anni faEdizione del 20 luglio 2019

Si è chiuso ieri il 36° Festival di Almada, piattaforma privilegiata per un confronto tra il teatro europeo e quello degli altri continenti, nonché utilissimo strumento per verificarne sviluppi e linguaggi nelle diverse parti del mondo. Quest’anno la rassegna portoghese ha visto concentrarsi molti spettacoli attorno al protagonismo femminile. Tranne poche eccezioni importanti (Se questo è un uomo di Primo Levi prodotto qui ad Almada, e il Macbettu sardo di Alessandro Serra) i titoli di maggior seguito e successo ruotavano tutti attorno a figure femminili, spesso femministe, spesso di retaggio storico, talvolta contemporanee o addirittura «futuribili». A cominciare dalla produzione più imponente, e di maggior richiamo, che ha fatto accorrere tutta Lisbona nella sala grande di Belem, per Maria ha detto quel che ha detto, ovvero Maria Stuarda con tutti i retropensieri, i sentimenti e i risentimenti, ma anche la spavalda sfida che rende la regina di Scozia quasi preveggente: destinata a cadere vittima di Elisabetta I, ma consapevole e quasi artefice dell’eredità che darà il trono a suo figlio Giacomo I, alla faccia della virginea rivale. Un’ora e mezza di magnetico monologo, da parte della sempre bravissima Isabelle Huppert, che Bob Wilson condanna qui alla quasi immobilità, seppur compressa e caricata come un vero proiettile umano. Che, in questa riscrittura di Darryl Pinkney, si confronta e dialoga coi tagli di luce, le dilatazioni visive, i restringimenti di campo ottico, quasi la tattilità di illuminazioni e ombre, che devono irradiarsi dalla sua mente e dal suo corpo. Se per il titolo capostipite dell’opera contemporanea, Einstein on the beach, erano fondamentali le musiche di Philip Glass, qui Ludovico Einaudi offre una partitura magnifica al trionfo di Huppert.

UNA MORBIDITÀ voluttuosa quanto peccaminosa muove invece altre due donne, signore anch’esse del cinema, di generazione e nazionalità differenti qui riunite in un oscuro groppo familiare. Impersonano madre e figlia infatti la francese Bulle Ogier (attrice di Bunuel, Fassbinder, Chereau) e la portoghese Maria de Medeiros (da Oliveira a Pulp Fiction), Nell’Amore impossibile di Christine Angot (tratto dal suo romanzo) e messo in scena da Celie Pauthe, non compare ma grava il padre incestuoso e responsabile del dramma. Più parlato che agito, il testo è una prova d’attrice, ma in cerca di risolutiva elaborazione.
Tutta positiva invece la Giovanna d’Arco che dalla Norvegia ha portato June Dahr, autrice e interprete della Pulzella, che sfida bellissima e intensa il gap anagrafico, lanciando il del personaggio medievale nel pensiero contemporaneo, cui dà profondità una religiosità ovvia ma qui accentuata dalla radicalità del marchio scandinavo. Mentre molto laiche e totalmente esplicite sono le otto scatenate interpreti della francese Stagione secca.

LO SPETTACOLO, proveniente da Avignone 2018, è scritto (con Jean Luc Beaujault), messo in scena e interpretato da Phia Menard. Una sorta di rito liberatorio, quasi una vera e cruenta evasione dall’immaginario maschile, articolato in cinque episodi: prologo, sottomissione, nascita, combattimento, epilogo. Citando vagamente titoli teatrali di affrancamento di genere, la rivolta e l’uscita di schiavitù gioca con l’acqua e con i vapori di scena, che divengono territorio e confine di quella liberazione. Con invenzioni e scene «azzardate», ma che affascinano con allusività e intelligenza.

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